CO'M PARLAVA'M

Raccolta di Termini e di espressioni abituali della parlata della Terra di Sant’Agapito sul versante Nord-occidentale del Matese
Curata da
MARIO MADDONNI

D’d’ca’t a m’glièr’ma
p’ tutta la paciénzia cà t’nuta
e p’ tutt ru tiémp ch’ mà da’t,
a figl’m p’cché è figl’m
e a frat’m M’chè’l
p’ l’ pa’n ch’ c’ sé’m scpartu’t
e p’ la ussa
ch’ mà da’t a sc’cri’v.

Dedicato a mia moglie
per tutta la pazienza che ha avuto
e per tutto il tempo che mi ha dato,
a mio figlio perché è mio figlio
ed a mio fratello Michele
per il pane che ha diviso con me
e per la spinta decisiva
che mi ha dato a scrivere.

Prefazione di Onorato Bucci

PARLATA, LINGUA, LINGUAGGIO E MEMORIA STORICA DELLA TERRA DI SANT’AGAPITO

Sommario:

1. La pubblicazione della presente raccolta di termini ed espressioni della parlata locale di Sant’Agapito occasione opportuna per un raffronto tra convivenza di parlate locali e parlata nazionale e fra istituzioni locali e istituzioni nazionali;

2. La Carta dei Dialetti d’Italia del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Centro Studi per la dialettologia italiana;

3. La parlata molisana e la sua autonomia semantica: “parlata” e non dialetto fra lingue locali e lingua nazionale: bene ha fatto Mario Maddoni a dare al suo lavoro il titolo di “Com’ parlavam”; tanto più che il territorio molisano conserva la memoria di comunità e di lingua provenzale, germanica (longobardica), bulgara, ebraica, arberesh, croata e veneta, pienamente soldate con la comunità italica (latina, sannita e ligure) precedente e formanti l’attuale gens molisana di cui il popolo che vive a Sant’Agapito è parte. Le parlate della comunità del Molise unificate dallo spirito e dalla religiosità benedettina;

4. Necessità di una riflessione storico-linguistica sulla presenza di una molteplicità di parlate o parlari, compresa quella che assurgerà poi a idioma nazionale, nella penisola dal tempo degli Italici ad oggi;

5. La Comunità di Sant’Agapito, sorta nel IX secolo su un costone del massiccio matesino antistante la valle di Isernia, nasce indipendentemente e come alternativa all’antico abitato di una presenza monacale nella valle e alla presenza abitativa delle Temennotte, probabile centro sannita;

6. Linguaggio e lingua della Comunità di Sant’Agapito come rappresentazione storica della sua memoria;

7. La Raccolta dei termini e delle espressioni abituali della parlata della terra di Sant’Agapito come stratificazione di culture diversificate che hanno dominato il territorio;

8. Conclusioni.

La pubblicazione della presente raccolta di termini ed espressioni della parlata locale di Sant’Agapito occasione opportuna per un raffronto tra convivenza di parlate locali e parlata nazionale fra istituzioni locali e istituzioni nazionali.

La pubblicazione della presente Raccolta dei Termini e delle espressioni abituali della parlata della Terra di Sant’Agapito ci ha consentito di riandare ad antiche nostre suggestioni e a particolari nostri studi circa la necessità di individuare le origini degli istituti giuridici attraverso lo studio delle lingue e dei linguaggi e di vederne le connessioni con il perdurare di tradizioni giuridiche giunte dal passato fino al nostro presente storico. Problema affascinante che obbliga il normativista a fare i conti con il filologo ed il linguista e che suggerisce a quest’ultimo di tener conto che in un termine usato nel linguaggio per innumerevoli anni e periodi storici incide sulla formazione di prassi giuridiche di cui poi il legislatore deve necessariamente tener conto.
Questo è anche il presupposto perché una lingua vada tutelata fino a che essa è fonte di legame fra fatti e atti giuridici e finché essa è la rappresentazione verbale di comportamenti degnidi attenzione da parte dell’Ordinamento Giuridico. Ecco dunque che la presente pubblicazione è anche l’occasione per rimeditare il rapporto tra parlate locali e parlate nazionali e di conseguenza fra il diritto e la prassi giuridica consuetudinaria che le parlate locali sottendono e il diritto che l’ordinamento giuridico che si esprime nella parlata nazionale invece afferma e impone in termini di convivenza di linguaggi e che era, agli inizi dell’Unità d’Italia, la possibilità di insegnare la parlata nazionale attraverso le parlate locali; in termini di ordinamento giuridico si trattava di far convivere gli ordinamenti dei diritti locali (consuetudinari o meno) con l’Ordinamento Giuridico Nazionale che intanto il nuovo Stato Italiano si dava: era il progetto di Alessandro Manzoni e dell’Ascoli da un lato e del Besta e del Solmi dall’altra che venne sconfitto di fronte alla necessità di dare unità formale e sostanziale al nuovo Stato che si era creato, e l’unità linguistica ne sembra il presupposto necessario se pur controverso.
Nel redigere questo saggio, provocato dalla redazione della Raccolta dei termini e delle espressioni abituali della parlata della terra di Sant’Agapito compiuta da Mario Maddonni, un ricordo riverente va a Francesco D’Ovidio, molisano purissimo, nato a Campobasso il 5 dicembre 1849 e morto a Napoli il 24 novembre 1925, laureatosi a Pisa nel 1870 con una dissertazione di laurea dal titolo Sull’origine dell’unica forma flessionale del nome italiano (pubblicata in Pisa, 1872) e impostosi nel mondo scientifico giovanissimo prima con la pubblicazione dell’Archivio Glottologico Italiano Il sul De Vulgari Eloquentia e poi ibidem, IV, su una descrizione fonetica della sua parlata nativa. Ma la sua opera più rigorosa fu la Grammatica storica della lingua e dei dialetti italiani scritta in collaborazione con W. MAYER-LUBKE e prima pubblicata in tedesco e poi in edizione italiana, Milano 1906. Fu fermissimo assertore del valore delle parlate locali e della necessità di conoscere la lingua nazionale attraverso le lingue locali (o dialetti come ancora si diceva) e fu quindi criticissimo di Dante e Manzoni per quanto riguardava l’aver attribuito da parte loro al fiorentino la dignità di lingua nazionale. Fu Vice Presidente (dal 1904 al 1912) dell’Accademia Nazionale dei Lincei e poi Presidente dal 1916 al 1920. La Casa Anonima Editrice di Caserta pubblicò tutta la sua opera, 1926 e ss. Su di lui cfr. M.SCHERILLO, P.RAGNA E G. VITELLI, Francesco D’Ovidio nella vita e nella scuola, in Nuova Antologia, 16 Marzo 1926 e M.Pelaez, alla voce D’Ovidio Francesco in EI, XIII, 1932 p.191. Alla memoria di Francesco D’Ovidio dedico questo saggio riconoscendomi completamente nella sua opera.

La Carta dei Dialetti d’Italia del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Centro Studi per la dialettologia italiana

Il Centro Studi per la Dialettologia Italiana del C.N.R. (Consiglio Nazionale delle Ricerche) direttto da M. Cortellazzo, dando vita alla Carta dei Dialetti d’Italia sotto la direzione di G. B. Pellegrini, fissava le parlate della Penisola in 14 gruppi:
franco provenzale;
provenzale;
gallo-italico
veneto;
ladino;
friulano;
tedesco;
sloveno;
toscano;
mediano;
meridionale intermedio;
meridionale estremo;
logudonese-campidanese;
sassarese-gallese;

Questi gruppi vengono poi suddivisi nelle seguenti famiglie:

franco-provenzale
a) della Valle d’Aosta
b) del Piemonte,
provenzale;
gallo-italico
a) ligure
b) piemontese:
I – alto piemontese
II – basso piemontese
c) lombardo: I – occidentale
II – orientale
III – alpino
IV – novarese
V – trentino occidentale
VI – ladino-fiammazzo
VII – ladino-anaunico
d) emiliano:
I – occidentale
II – orientale
III – mantovano
IV – vogherese-pavese
V – lunigiano
VI – romagnolo
VII – marchigiano settentrionale
veneto
a) lagunare
b) meridionale
c) centro-settentrionale
d) veronese
e) triestino-giuliano
f) trentino-orientale
g) ladino-veneto
5. ladino
a) atesino
b) cadorino
6. friuliano
a) centro-orientale
b) occidentale
c) carnico
7. tedesco
a) altovenesteno
b) sud tirolese occidentale
c) sud tirolese orientale
d) pustero
8. sloveno
a) zegliano (val Canale)
b) renano
c) valle del Torre
d) collio
e) carsico
f) berchino
9. toscano
a) fiorentino
b) senese
c) orientale:
| – pisano – livornese – albano
II – pistoiese
III – lucchese
d) aretino
e) amiatino-grossetano
f) apuano
10. mediano
a) marchigiano centrale:
I – anconetano
II – maceratese
b) umbro:
I – settentrionale
Il – meridionale occidentale e viterbese
III – meridionale orientale
c) laziale :
I – laziale centro settentrionale
II – romanesco
d) cigolano – reatino – aquilano
11 – meridionale intermedio:
a) marchigiano meridionale abruzzese:
I – marchigiano meridionale
II – teramano
III – teramano orientale adriatico
IV – abruzzese occidentale
b) molisano
c) pugliese:
I-dauno appennico
II – garganico
III – apulo – barese
d) laziale meridionale e campano:
| – laziale meridionale
II – napoletano
III – irpino
e) lucano- calabrese settentrionale:
I – lucano nord occidentale
II – lucano nord orientale
III – lucano centrale
IV – area arcaica lucano – calabrese
V – calabrese settentrionale
12. meridionale estremo:
a) salentino:
I – salentino settentrionale
II – salentino centrale
III – salentino meridionale
b) calabrese centro-meridionale:
I – calabrese centrale
Il – calabrese meridionale
c) siciliano:
I – occidentale
Il – area metafonetica centrale
III – area metafonetica orientale
IV – area orientale non metafonetica
V – messinese
VI – isole eolie
VII – pantesca
13. logudonese-campidanese:
a) logudonese:
I – nuorese
II – logudonese settentrionale
III – barbaricino del Gennargentu
IV – area mista centro settentrionale
b) campidanese
14. sassarese gallurese:
a) gallurese
b) sassarese

Quindi : 14 gruppi linguistici con 52 famiglie linguistiche derivate e ben 53 sottofamiglie a queste ultime collegate.
La Carta dei dialetti d’Italia del Consiglio Nazionale delle Ricerche parla di aree miste di complessa classificazione, e queste sono: l’area catalana di Sardegna, l’area arberesh di Sicilia, di Calabria, del Molise e dell’Abruzzo, l’area croata del Molise e l’area grecanica della Puglia salentina, per complessivi sette gruppi linguistici che si accompagnano ai precedenti. Ed allora, fra grandi e piccole famiglie linguistiche ci sono ben 126 (centoventisei) gruppi indipendenti individuati dalla dottrina che parlano idiomi distinti che attendono ancora di essere studiati nella loro pienezza semantica. E poiché il valore semantico di un termine sottende sempre e comunque una valenza istituzionale, studiare questi gruppi di idiomi vuol dire capire i fatti e gli atti della nostra storia giuridica nazionale precedente al momento codiciale ma anche e (soprattutto) le modificazioni delle consuetudini giuridiche subite nel corso dei decenni trascorsi (prima e dopo l’Unità della Penisola) delle singole comunità nel confronto con le raccolte normative. A conclusione di questa presentazione della Carta dei Dialetti d’Italia va ricordato che la prima partizione e trattazione XIV sintetica dei dialetti d’Italia fu quella che G.I.Ascoli tracciò nel 1880 per la 9 edizione dell’Encyclopeadia Britannica ripubblicata poi nel suo Archivio Glottologico Italiano, VIII, pp 98-128. Lo studio fu poi continuato da G.BERTONI, Italia Dialettale, Milano 1916, che integrò l’analisi del Maestro, individuando individuando i principali tratti caratteristici delle parlate individuate dall’Ascoli. Una preziosa classificazione delle parlate alpine fu compiuta da C.Salvioni, in Lettura, I, pp. 715-724. Per la questione della lingua cfr. V. VIVALDI, Storia delle controversie linguistiche, 2° ed; I, Catanzaro, 1925; T. LABANDÈ JEANROG, La question de la langue en Italie, Strasburgo, 1925. Per lo stato delle lingue in Italia innanzi alla Ila Guerra mondiale, cfr. Lingua e dialetti, alla voce Italia in El, XIX, 1933, pp. 922-928, curata da G.BERTONI.

3. La parlata molisana e la sua autonomia semantica: “parlata” e non dialetto nella distinzione fra lingua locale e lingua nazionale: bene ha fatto Mario Maddonni a dare al suo lavoro il titolo di “Com’ Parlavam”, tanto più che il territorio molisano conserva la memoria di comunità e di lingua provenzale, germanica (longobardica), bulgara, ebraica, erberesh, croata e veneta, pienamente saldate con la comunità italica (latina, sannita e ligure) precedente e formanti l’attuale gens molisana di cui il popolo che vive a Sant’Agapito è parte. La parlata delle comunità del Molise unificate dallo spirito è dalla religiosità benedettina.

A questa avventura è andato incontro la parlata molisana che è l’unica – a leggere lo studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche – insieme a quella cicolano reatino-aquilana, fra tutte le parlate della Penisola, ad avere una sua autonomia completa.
E a questo punto l’analisi – così come l’abbiamo individuata – ha bisogno di più di una precisazione.
Certo che prendiamo atto dell’autonomia semantica della parlata molisana che si caratterizza ancor più rispetto a quella cicolano-reatino-aquilana perché viene a identificarsi in un territorio ben preciso che è l’antica provincia di Molise diventata poi Provincia di Campobasso e poi Regione Molise con due provincie, quella di Campobasso e quella di Isernia. E questo rende il territorio molisano più interessante nello scenario generale della penisola, e ancor più originale e unico rispetto agli altri territori. Si potrebbe anche aggiungere che il linguaggio molisano si lega a quello cìcolano-reatino-aquilano riandando all’unità sabino-sabellico-sannita, ma lo studio di questo legame ci porterebbe molto lontano, lontanissimo dallo studio specifico di questa nostra indagine (che comunque ci ripromettiamo di compiere quanto prima).
Quì basta sottolineare l’originalità del linguaggio molisano e la sua specificità rispetto agli altri linguaggi della Penisola. Non c’è dubbio che questa originalità del linguaggio molisano, che vuol dire in ultima analisi conservazione di sostrati, calchi mantici si non da etimi arcaici, è dovuta al processo di senilizzazione nelle aree marginali. L’Alto Molise in particolare, presenta di frequente rapporti fra anziani (oltre i 60 anni) e giovani (fino a 14 anni) nell’ordine del 20 % contro il 60-70% delle aree più dinamiche, prefigurando, a giudizio di P.LANDINI (alla voce Molise in El, Appendice V, IT-O, 1993; pp. 527-530, ed ivi pp. 527-528) squilibri insediativi, produttivi e sociali ( mobilità, assistenza, ecc) ancora maggiori per il futuro di cui, aggiungiamo noi, il mutamento e la stabilità del linguaggio rappresenta un dato incontrovertibile di capovolgimento sociale e culturale. La constatazione della presenza di 136 comuni, alcuni dei quali di qualche centinaia di abitanti (se non di decine di residenti), sottolinea ancora di più l’isolamento degli insediamenti umani, favorito da condizioni orografiche che necessitavano di tortuosi percorsi montani alla loro stabilizzazione o da condizioni geomorfologiche collinari che hanno obbligato alla costruzione di giri viziosi ai tracciati stradali spesso dovuti per sottrarre questi ultimi a movimenti franosi. Tutto questo ha favorito la conservazione di parlate rimaste immobili nel tempo per cui necessiterebbe un’indagine comunità per comunità dei propri vocabolari e dei propri parlari, come è avvenuto ora per la Comunità di Sant’Agapito che qui celebriamo. Tanto più questa necessità urge che si realizzi in quanto il territorio molisano conserva la presenza di comunità storiche, e quindi linguistiche, fra le più svariate che non sono solo quelle arberesh e croate di cui parleremo più in avanti, ma anche quelle di origine ebraica (testimoniata in più di un sito urbano da Venafro a Monteroduni e Sant’Agapito fino a Carpinone con la memoria di due giudecche tuttora testimoniate perfino nell’urbanizzazione di quest’ultimo centro insieme a Bojano, per ritrovare questa memoria ad Agnone e Campobasso e poi viavia a Larino e Colletorto), bulgara (Cantalupo fino a Gallo e Letino ma anche tutto il territorio intorno a lelsi: più di un vescovo di Isernia aveva questa origine), provenzale (S. Polo Matese, già Saint Paul e poi Molise, da Molisium, il latino per Moulin), veneta (ad Agnone, con le effigi di S. Marco), germanico – longobarda (più di un territorio lungo il confine beneventano. Queste comunità da un lato mantennero intatta la loro tradizione storica e linguistica, dall’altra si confrontarono con le culture viciniori dando parte del loro patrimonio alle genti circostanti e ricevendo da queste ultime contributi originali di cui si arricchirono. Ad unire tutte queste Comunità fu la fede cristiana di stampo benedettino che divenne celestino per poi ritornare ad essere benedettino. A sottolineare quanto la terra del Molise deve alla cultura di S. Benedetto basta dire che in essa possono elencarsi ben 139 monasteri benedettini di origine cassinate, la maggior parte di certa documentazione [in numero di 104: uno ad Acquaviva Collecroce; quattro ad Agnone, uno a Belmonte del Sannio, tre a Bojano, due a Bonefro, 2 a Campobasso, 1 a Campolieto, 2 a Capracotta, 1 a Carovilli, 1 a Carpinone, 1 a Casacalenda, 1 a Castropignano, 1 a Cerro a Volturno, 1 a Chiauci, 1 a Civitacampomarano, 2 a Civitanova del Sannio, 1 a Colletorto, 3 a Frosolone, 1 a Gambatesa, 1 a Gildone, 1 a Guardialfiera, 3 a Guglionesi, 3 a Isernia, 4 a Larino, 2 a Limosano, 1 a Matrice, 2 a Mirabello Sannitico, 1 a Montagano, 1 a Montelongo, 3 a Montenero di Bisaccia, 1 a Monteroduni, 2 a Montorio dei Frentani, 3 a Morrone del Sannio, 1 a Pesche, 2 a Pietrabbondante, 1 a Pietracatella, 2 a Riccia, 1 a Ripalimosani, 1 a Roccasicura, 1 a Roccavivara, 1 a Rocchetta a Volturno, 1 a S. Croce di Magliano, 3 a S. Elia a Pianisi, 1 a S. Giovanni in Galdo, 2 a San Giovanni di Puglia, 3 a San Martino in Pensilis, 1 a San Massimo, 1 a San Pietro Avellana, 1 a Scapoli, 2 a Sepino, 1 a Sessano del Molise, 2 a Sesto Campano, 1 a Tavenna, 3 a Termoli, 2 a Trivento, 4 a Venafro, 2 ad Ururi, 1 a Vinchiaturo), un numero minore di scarsa documentazione [1 ad Agnone, 1 a Bagnoli del Trigno, 1 a Baranello, 1 a Bojano, 1 a Carpinone, 2 a Castelpetroso, 1 a Fornelli, 2 a Frosolone, 1 a Larino, 1 a Monteroduni, 1 a Montorio dei Frentani, 1 a Morrone del Sannio, 1 a Pescolanciano, 1 a Petacciato, 1 a Petrella Tifernina, 1 a Pietracupa, 1 a Pizzone, 3 a Poggio Sannita, 2 a Salcito, 1 a Sant’Agapito, 1 a S. Giovanni in Galdo, 1 a San Giuliano del Sannio, 1 a San Martino in Pensilis, 3 a Trivento, 1 a Tufara, 3 a Venafro, per un numero di 35 monasteri] cui devono aggiungersi i 17 centri monastici fondati dall’Abbazia di S. Vincenzo al Volturno [1 a Castel San Vincenzo, 1 a Montaquila, 1 a Filignano, 3 a Fornelli, 2 a Colli al Volturno, 3 a Cerro al Volturno, 1 ad Alfedena, 1 a Scapoli, 1 a Rocchetta al Volturno, 1 a Licinoso, 1 a Forli del Sannio, 1 a S. Maria Oliveto] e infine 10 villaggi controllati da S. Vincenzo al Volturno, tutti dell’XI secolo. Ebbene, Sant’Agapito in Valle è uno dei Centri benedettini che le bande cosiddette saracene provenienti da Lucera -Sepino distruggono. Se teniamo presente che questi Centri monastici (tutti benedettini, parte dei quali divennero poi celestini per tornare poi benedettini quando salì sul soglio papale Bonifacio VIII) sorsero, pressoché tutti (ma la verifica andrebbe compiuta sito per sito) su precedenti ville romane, come nel caso di Sant’Agapito, rappresentando ciascuna di essa una parte della memoria storica dell’intera civiltà italica. Studiare queste singole presenze monastiche (su cui cfr. U.PIETRANTONIO, II monachesimo benedettino nell’Abruzzo e nel Molise, Lanciano, 1988) vuol dire studiare anche la memoria dell’intero linguaggio molisano.
Ed è all’interno del linguaggio molisano dunque che va individuata e studiata la parlata di Sant’Agapito.
La quale ha una sua originalità che caratterizza ancor più lo specifico molisano.
Il linguaggio di Sant’Agapito è un linguaggio che accomuna la comunità di questo borgo matesino alle comunità di Roccamandolfi, Gallo e Letino, ma particolarmente alla prima, sì da fare di questi quattro borghi una sola comunità linguistica e – per quanto abbiamo sottolineato precedentemente (circa il principio che il valore semantico di unnt5ermine sottende una determinata valenza istituzionale) – una sola comunità giuridica. Lo conferma del resto la loro storia unitaria nel corso dei secoli protrattasi fino ad oggi che ne fa un unico organismo politico (nel senso più nobile del termine della nółıs greca) che eredita e nel contempo trasmette una unitaria cultura del Matese, la Montagna sacra delle genti che ne abitano le pendici e le valli sottostanti alle sue vette.
Il linguaggio di Sant’Agapito, dunque, come specifico del linguaggio matesino, è questo il merito della raccolta che presentiamo.
La quale ha più di un merito, a partire dalla stessa titolatura della raccolta stessa che, viene chiamata parlata (com’ parlavam’); detto così, da un addetto ai lavori, è splendido! Non dialetto, dunque, ma parlata (o, nell’uso dei linguisti, uno dei parlán) da parlare, latino medioevale da parabolare che ha assunto successivamente il significato di parola come generalizzazione nella società civile della predicazione pastorale nella chiesa e nei luoghi di culto [G. DEVOTO, Avviamento alla etimologia italiana, Firenze, 1968, p. 302 nel confronto con la radice greca Tapaſoa nda]. E non dialetto, dunque, che è un francesismo, dal provenzale, dal provenzale dialecte, così passato dal greco dic2extos e trasformato nel linguaggio dei territori della Penisola solo nel XVI secolo [G. DEVOTO, ibidem, p. 129] e mai diffusosi nel resto della Penisola se non dopo l’Unità del Paese, per imposizione. Alla luce di questa constatazione bene ha fatto, dunque, Mario Maddoni a dare alla sua raccolta il titolo Com’ Parlavam’ perché a stretto rigore parlate (e parlari) vanno dette le specificazioni linguistiche che si ritrovano nella Penisola e che vanno, a nostro avviso, ben oltre i 126 (centoventisei) gruppi innanzi ricordati. Dialetto, infatti, diáhextos in greco, da diáksso vale trascelgo, scelgo, e descrive il parlare, il discorrere all’interno di una unità, per cui il dialetto sta ad indicare una parte del tutto che, riferito al nostro caso, ha il significato di una parte di una lingua nazionale dando ad intendere che quest’ultima comprenderebbe tutti i linguaggi della Penisola, quasi che una lingua madre avesse dato origine e comprenderebbe lingue figlie da essa generate.
Che ovviamente non è così, perché la lingua nazionale italiana è essa stessa una parlata , quella toscana, sorta dalla sintesi del linguaggio fiorentino con quella senese e della Val di Chiana e quindi essa stessa un dialetto o, meglio, una delle innumerevoli parlate della Penisola. Il fatto è che non esiste nella Penisola una lingua madre se non quella latina dal cui degrado e dall’incontro con miriadi di incrostazioni provenienti da altre lingue sono nate le parlate locali, fra cui la parlata di Sant’Agapito. Le origini, lo sviluppo e le cause di questa situazione non sono omogeneamente applicabili a tutte le parlate della Penisola e vanno studiate caso per caso, parlata per parlata. In questa sede possiamo solo dire, e sottolineare, che le origini, lo sviluppo e la base di ogni parlata della Penisola, compresa quella di Sant’Agapito vanno ricercate nella lingua latina al momento dell’alto Medioevo che già era sviluppo di un parlare prelatino e in particolare italico se non preitalico, certamente preromano, quando cioè la Penisola si era divisa in aree linguisticamente ben nette e separate.

4. Necessità di una riflessione storico-linguistica sulla presenzadi una molteplicità di parlate (o parlari), compresa quella che assurgerà poi a idioma nazionale nella Penisola dai tempi degli italici ad oggi ci sono dunque da evidenziare momenti storico-linguistici attraverso cui i sono formate le varie stratificazioni semantiche delle parlate della Penisola che si presentano come partizioni precise distinte l’una dall’altra.
La prima partizione, ricca e complessa, è quella degli Italia che si vuole porre nel territorio centrale e meridionale della Penisola. Erano, queste genti, di stirpe indoeuropea che si erano sovrapposte a etnie mediterranee che agli inizi dell’età storica vivevano ancora in Sicilia, Sardegna e Corsica, Erano, queste genti, popoli di origine indoeuropea, come i Latini e i Falisci del Lazio, i Volsci nella Valle del Lilri e quelli che chiamiamo Sanniti che abitavano i territori della Penisola Meridionale, ma che sarebbe più esatto chiamare con il termine onnicomprensivo di Osco-Italici: sono i Frentani, i Pentri, i Caracini, ma anche gli Irpini, i Campani, i Lucani, i Bruzi, i Magni, i Marsi, gli Equi, i Vestini, i Piceni, gli Ernici, i Marucini, i Mamertini, i Peligni. Queste genti parlavano tre idiomi, (ma la classificazione è comunque approssimativa); 1. il latino (e faliscos); 2. l’osco con designazione attenta alla lingua dei Campani; 3. l’umbro. Questi ultimi due gruppi costituiscono la famiglia osco-umbra. A se’ formano i gruppi e i relativi idiomi dei Messapi e gli lapigi, affini agli Illiri, ma il problema è controverso, e i Dauni e la genti Salentine, tuttora di non facile classificazione, e gruppi a se’ formano le genti di Sicilia, con i Sicani, i Siculi e gli Elimi; i Sardi di Sardegna con i coloni fenici e cartaginesi che, peraltro erano presenti già nella Trinacria. Ed è ben noto che colonie greche per tutta l’area tirrenica fino a Cuma e l’area adriatica fino a Padova avevano diffuso il pensiero ellenico nella Penisola dando vita, nel meridione della Penisola a quella che la tradizione suole chiamare Magna Grecia, intendendo un territorio dove la presenza di abitanti di stirpe ellenica ben giustificava questo nome, tanto da protrarsi fino all’epoca contemporanea.
La seconda partizione è quella più omogenea, della famiglia etrusca che abitava l’attuale Toscana e Corsica e che aveva occupato un vasto territorio che andava dalla Valle Padana alla Campania, spingendosi al nord fino di Bologna, Venezia e Milano e a sud fino a Capua. E’ ben noto che, pur avendo migliaia di reperti linguistici, si discute ancora se l’etrusco sia o meno del ceppo indoeuropeo.
E c’era poi una terza partizione, ed era quella che andava al nord della Penisola, con i Liguri a ovest, etnia che ha lasciato testimonianza della loro presenza parecchi toponimi; i Celti al centro, chiusi fra Senoni, Insubri e Boi; i Veneti, imparentati con gli Illirici, anch’essi di stirpe indoeuropea.
Delle miriadi di lingue parlate da questi gruppi c’è scarsissima traccia, fatta eccezione degli Etruschi di cui peraltro si ignora gran parte.
Resta il latino che si impose su tutte le famiglie linguistiche non per virtù propria ma per l’energia espansiva di Roma. Ovviamente il latino che si impose non fu il latino letterario ma quello popolare parlato dal volgo e perciò detto latino volgare, lingua che si frammentò in mille rivoli, fondendosi con incredibili lingue locali del passato preromano: nasce un latino vivo, vario, mutevole, diversificato regione per regione, terra per terra, borgo per borgo, assimilando le abitudini fonetiche, morfologiche, sintattiche delle genti della Penisola che, mentre riconoscevano nel latino la propria lingua, la mutavano sostanzialmente, dando vita a quelle che la dottrina ha chiamato sostrati etnici, con il risultato che tanti furono i sostrati quante erano state le famiglie linguistiche che il latino aveva sommerso e livellato alla dominazione romana. Del resto, questo è l’insegnamento di Dante Alighieri in De Vulgari Eloquientia 1, 16, 3, “in quantum ut nomine latini agimus, quae dam habemus semplicissima signa ed morum et habitum et locus tiones, quibus latinae actiones ponderantur “[in quanto agiamo come latini, abbiamo tratti fondamentali di costumi e di abitudine di espressione, rispetto ai quali si misurano e si soppesano le azioni latine). E conclude che il volgare (cioè il latino parlato dal popolo) è questa unità di espressione che si ritrova in ogni parlata locale e che di conseguenza non è propria di nessuna parlata perché tutte le comprende ed è presente in tutte e di per sé serve come parametro per ciascuna di esse e rispetto al quale tutte le parlate si misurano, si valutano e si ragguagliano (quod omnes latae et nullius esse videtur, et quo munucipalia vulgaria omnia latinorum mensurantum et ponderantur et comparantur). Dante Alighieri, cioè, individua il modello dinamico che riconduce ad unità di lingue la varietà delle parlate e fa della lingua un segno dell’E&vos: è quest’ultimo che è unitario, nonostante le sue differenziazioni, ed è caratterizzato da simplicissima signa che improntano di se tutte le altre manifestazioni. Il latino, dunque, è inteso come base di tutte le parlate della penisola. Del resto in Dante non solo Italia indica tutta la Penisola, dalle Alpi alla Sicilia, ma Italiae loquela è intesa come la categoria che comprende tutti i parlari dalle Alpi alla Sicilia. E qando l’Alighieri adopererà indifferentemente Italia e Latium da un lato e italus e latinus dall’altra ( o latialis), sottolineerà con decisione l’identità latina, cioè romana, di tutte le genti della Penisola. Ed ebbe però l’illusione (come sottolinea M.BARBI, alla voce Dante Alighieri, in EI, XII, 1931, pp.327-347 ed ivi in particolare p.335) che il modello più completo e perfetto del latino volgare illustre fosse quello di Guido Cavalcante, di Cino da Pistoia e di lui stesso, errore che si è perpetuato poi fino ad oggi, attraverso Manzoni e gli apologisti di quest’ultimo.
Gli unici a difendersi dall’imitazione latina furoni i parlari centro-meridionali perché lì la lingua greca e i sommersi italici erano ben più forti della lingua latina e calchi greci e italici (esempio tipios è us’m, odore, tatto, da bouós/osmos greco dello stesso valore e pies’k, nel toponimo pesche, da psk, roccia, italico) mentre gli idiomi celtici, liguri, etruschi scomparvero e, probabilmente, solo qualche calco veneto resistette all’inondazione latina (puta/puteo, per figlio).
I parlari dell’Italia postromana nascono su questo sfondo e in questo scenario linguistico, anch’essi divisi in tre partizioni.
1. parlate centro-meridionali, che sono sorte su base paleoitalica e che unisce il siciliano al pugliese, dall’umbro al marchigiano e che è la sintesi strabiliante di calchi preitalici, italici, latini, greci e arabi che invadono il territorio insieme a calchi di lingue appartenenti alle dominazioni del territorio (iberico/spagnolo, normanno/francese). Queste parlate centro-meridionali possono dividersi in tre zone:
A -una zona estrema, comprendente la Sicilia, la Calabria e la Puglia meridionale;
B- una seconda zona che abbraccia la Puglia settentrionale la Basilicata, la Campania, il Molise e l’Abruzzo;
C – una terza zona comprendente gli idiomi del Lazio, Marche e Umbria.
2. parlate toscane, con il fiorentino che è l’erede più fedele e puro del latino (Firenze, Mugello, Valdarno, Vald’Elsa), il gruppo occidentale-pisano-lucchese-pistoiese ben presente anche in Dante (Inferno XXV, 79, Purgatorio XXVII, 76), il senese, l’areatino- chianaiuolo, il garfagnano e il corso;
3. parlate settentrionali, di impostazione ligure, celtica e veneta, come si è detto precedentemente, e che si distinguono nel lombardo (Ticino e Grigione fino a Novara, con Milano e Levantina), piemontese, ligure, romagnolo ma anche gli idiomi alpini di tipo franco-provenzale, friulano che è una modificazione del ladino ed infine quest’ultimo.
Alla base di tutti i parlari della Penisola, dunque, si può anche dire che ci sia una base lessicologica latina ma è anche vero che a causa di sovrapposizioni etniche, di invasioni di guerre, di commerci e di influssi letterari su questa base lessicologica è rimasta o sono penetrati, nel lungo tempo, infiniti vocaboli estranei alla latinità, o vocaboli latini in veste romanza, di paesi cioè neolatini (come le parlate della penisola provenienti dalla genti comunque aventi subito la lingua latina) recanti con sè elaborati linguistici di tendenze fonetiche estranee.
E questi elementi estranei sono:
1. – elementi preindeuropei, che sono rimasti nella configurazione del suolo, negli strumenti di campagna, nelle piante e negli animali. Tale è, ad esempio, matta per vimini, cespuglio, per cui camatte, per casematte, che erano le casupole ricoperte di vimini o di frasche, come nell’idioma di Pesche (Isernia) dove i tetti ricoperti di paglia con fango erano chiamate matte;
2. – elementi celtici, come vrena, per crusca;
3. – elementi liguri e gallo-liguri, come gip, per ginepro;
4. – elementi italici, come bifulcus, per bifolco, passato attraverso il latino o vitorca, per grande cucchiaio di pastori; timpa, per balza, rupe; pezzorra, per grappolo d’uva, che potrebbero essere anche di origine italica proveniente dal preitalico, come il psk prima citato;

5. – elementi greci, di cui gli idiomi della Penisola sono pieni, come l’us’m più volte citato da Ódeós, osmòs, odore, tatto;
6. – elementi arabi presenti in abbondanza in tutte le parlate italiane, dalla Sicilia popolare alla lingua dotta (algebra, ammiraglio, logaritmo, taccuino, gabelle, darsena). Basta ricordare giarra/giara (orcio grande), margia (terreno incolto), cantara (quintale), zaccana (ovile), ciranna (ranocchio), dammusu (prigione, volta), cafisu (misura d’olio), cabusa (pagnotta), variante di cambusa;
7.- elementi germanici che sono oltre mezzo migliaio entrati nelle varie parlate italiane, di cui di cui un buon gruppo penetrato già nel tardo latino (borgo, bevero per pastore), un secondo gruppo di parole gotiche (ardire, per guardare, tregua), un terzo da voci longobarde (panca, palla, zazzero), un quarto dal tronco germanico (bando, scabino, siniscalco), un quinto dal tedesco moderno.
Tutti questi termini si riferiscono a vocaboli in genere militari e guerreschi (schiera, elmo, branda, stormo, sperone, usbergo) misti a termini di ira e di odio;
8. – elementi francesi, dovuti al dominio francese, relativi a viaggi, pellegrinaggi, per effetto delle dominazioni normanna e angioina (giallo, mangiare, verziere, giardino, dubretto (per corpetto), custureri (per sarto)];
9. – elementi spagnoli, come per lingo, regalo, vigliacco, borracui, creanza, impegno, tormenta, baia, bardo, flotta, imbarazzo, rotta, aio, brio, casta, calma, ammarare, disinvoltura, fanfarsne, collera (da quejar)
10.- elementi alloglotti, di parlari di etnie culturalmente adulte che si distinguono nettamente dalla tradizione latina che informa le comuni parlate della Penisola e che danno vita a vere e proprie nazioni linguistiche che sono quella ladina, quella friulana, quella tedesca, quella franco-provenzali, quella provenzale tout-court, quella di tradizione greca, di tradizione catalana, di tradizione
croata e di tradizione arbersh.
A. la parlata ladino-friulana (essendo la seconda figlia diretta della prima) occupa ben 176 comuni al confine nord italiano con chiazze fra Tarvisio, Udine e territorio al confine con i Grigioni svizzeri. Fu G.I. ASCOLI (Saggi Ladini, in Archivio Glottologico italiano, I, 1873) ad indicare con il nome ladino, dal latinus della parlata locale dei Grigioni, delle valli dolomitiche dell’Alto Adige e del Friuli la_lingua di queste terre. Poiché queste tre regioni non hanno mai formato in nessuna epoca storica una unità amministrativa, mancava un termine unitario che le individuasse, e a questa mancanza supplì appunto l’Ascoli, recuperando il termine ladino in uso nelle parlare locali. Resta comunque il principio della individuazione del friulano che parla ladino (come appunto gli abitanti dei Grigioni e delle valli dolomitiche che parlavano ladino);
b. la parlata tedesca monopolizzata da 128 comuni del territorio altoatesino (sud Tirol);
c. la parlata franco-provenzale e provenzale tout-court, diffuse in 98 comuni fra la Val d’Aosta, i comuni Valdesi della Val Pellice e Val Chisone, i comuni della Val di Susa (diciassette) e Castel del Fino nel Saluzzese insieme a Faeto e Celle nel Foggiano e Guardia Piemontese in Sardegna;
d. la parlata catalana, presente nel territorio di Alghero dal 1353 da quando cioè Pietro IV espulse dalla città i Sardi e i Liguri colà presenti da millenni sostituendoli con Catalani provenienti dalla Spagna cui furono concessi gli stessi diritti degli abitanti di Barcellona da cui provenivano e da allora la città divenne il bastione della dominazione aragonese e spagnola in Sardegna.
e. i Greci d’italia distinti nella Grecia salentina e in quella calabra. La prima è in terra d’Otranto, comprendente nove comuni (Martano, Calimera, Martignano, Zollino, Sternolia, Soleto, Corigliano, Malpignano, Castrignano dei Greci); la seconda è nell’estremità meridionale della Calabria comprende il comune di Bova e i comuni viciniori di Amendolia di Galliciano, Roccaforte, Rogudi,
Condofurì, San Caterina e Gordeto, in totale, dunque, 16 comuni, con una perdita notevole delle proprie orgini di altre comunità perché è certo che nel XV secolo nel Salento le comunità grecaniche erano ben 27 diminuite poi a 15 nel XIX secolo.
f. tre comuni di lingua croata, nel Molise, in provincia di Campobasso, San Felice del Molise, Montemitro e Acquaviva Collecroce.
g. quarantasette comunità arberesche, di cui quattro nel Molise, così suddivise (in Albanese Nikoll Toci):

Provincia di Avellino
Greci, Greci, 823 m s.l.m.

Provincia di Campobasso
Kemarini, Campomarino, 54 m s.l.m.
Munxhfuni, Montecilfone, 405 m s.l.m.
Portkanuni, Portocannone, 148 m s.l.m.
Ruri, Ururi, 263 m s.l.m.

Provincia di Catanzaro
Garafa, Caraffa di Catanzaro, 358 m s.l.m.
Karcifi, Carfizi, 510 m s.l.m.
Puheriu, Pallagorio, 560 m s.l.m.
Sken Kolli, San Nicola dell’Alto, 460 m s.l.m.
Vina, Vena di Maiola, 25° m s.l.m.

Provincia di Foggia
Karrallnuovo, Casalnuovo, 230 m s.l.m.
Kazallvegi, Casalvecchio, 465 m s.l.m.
Aepti, Chieuti, 222 m s.l.m.
Provincia di Taranto
Shen Marcani, San Marzano, 125 m s.l.m.

Provincia di Pescara
Badhesa, Villa Badessa, 125 m s.l.m.

Provincia di Potenza
Barilli, Barile, 600 m s.l.m.
Mashqiti, Maschito, 595 m s.l.m.
Shen Kosatandini, San Costantino Albanese, 650 m s.l.m.
Shen Pali, San Polo Albanese, 850 m s.l.m.
Xhinestra, Ginestra, 554 m s.l.m.

Provincia di Palermo
Hora e Arbresheiele, Piana degli Albanesi
Kundisa, Contessa Entellina, 571 m s.l.m.
Sendahstina, Santa Cristina Gela, 850 m s.l.m.

Provincia di Cosenza
Cifti, Civita, 450 m s.l.m.
Ejanina, Eianina, 470 m .s.l.m.
Fallkunara Arbereshe, Falconara Albanese, 634 m s.l.m.
Farneta, Farneta, 910 m s.l.m.
Ferma, Firmo, 370 m s.l.m.
Firmoza Acquaformosa, 756 m s.l.m.
Frasnita, Frascineto, 486 m s.l.m.
Kajverici, Cavallerizzo, 470 m s.l.m.
Kasternexhi, Castroregio, 956 m s.l.m.
Maqi, Macchia Albanese, 418 m s.l.m.
Marri, Marri, 475 m s.l.m.
Mbuzati, San Giorgio Albanese, 428 m s.l.m.
Picilia, Santa Caterina Albanese, 460 m s.l.m.
Platani, Plataci, 980 m s.l.m.
Qana, Cerreto, 500 m s.l.m.
Shen Benedhiti, San Benedetto Ullano, 460 m s.l.m.
Shen Japku, San Giacomo di Cerreto, 470 m s.l.m.
Shen Martiri, San Martino di Finita, 550 m s.l.m.
Shen Mitri, San Demetrio Corone, 521 m s.l.m.
Shen Sofia, Santa Sofia D’Epiro, 558 m s.l.m.
Shen Vasili, San Basile, 540 m s.l.m.
Spixana, Spezzano Albanese, 320 m s.l.m.
Strighari, San Cosmo Albanese , 400 m s.l.m.
Ungra, Lungro, 650 m s.l.m.
Vakarici, Vaccarizzo Albanese, 448 m s.l.m.

A conclusione di questa disamina or ora compiuta possiamo concludere che la lingua costituisce la documentazione e la condizione di quella interazione che da origine e contenuto alla tradizione. Nella lingua si attuano nel contempo la continuità e la collaborazione fra le generazioni mediante la stabilizzazione in segni di tutta l’esperienza conosciuta e conoscitiva, come dimostrano tutte le comunità innanzi elencate, in particolare quelle ladine, croate e arbëresche.
II segno linguistico, cioè, è legato con le vicende e il destino dell’uomo e il suo valore universale in rapporto alla universalità della funzione, viene ad assumere riflessi, importanza e prestigio in relazione a circostanze di ordine sociale, e quelle circostanze vengono espresse in quel particolare idioma e non in un altro. Di qui la primarietà del linguaggio su ogni altra forma storica e storicizzata nella formazione del concetto e del valore di popolo. Per queste ragioni possiamo parlare, fra i tanti, di popolo ladino, di popolo croato o di popolo albanese che vivono all’interno del popolo italiano di cui fanno parte e da cui nel contempo si distinguono.
La primarietà del linguaggio come qualifica umana fa sì che la lingua costituisca la documentazione e la condizione di quella interazione che dà origine e contenuto alla tradizione. Nella lingua si attuano la continuità e la collaborazione fra le generazioni mediante la stabilizzazione in segni di tutta l’esperienza conoscitiva. Oggetti, usi, costumi e credenze esistono cioè nelle parole che li designano. Il segno linguistico in tal modo è legato con le vicende e il destino dell’uomo e il suo valore universale in rapporto alla universalità della funzione viene ad assumere riflessi, importanza e prestigio in relazione a circostanze di ordine sociale, e quelle circostanze vengono espresse in quel particolare idioma e non in un altro. Sono quindi le circostanze storiche di ordine sociale che modificano i linguaggi.
E il linguaggio ha anche un altro aspetto fondamentale, quello di dare corpo esterno alla comunicazione dell’attività dello spirito che non si estrinseca solo nel fatto di religioso (in rapporto cioè con la trascendenza) ma in ogni rapporto non necessariamente si limiti all’immanenza. Basta pensare alla storia del linguaggio: i nomi indicanti il divino o comunque i segni linguistici che non si limitano all’immenso sono tra i primi ad essere formati. Vico percepì con grande sensibilità questo problema quando alla base del segno linguistico pose i nomi degli déi. Ed i segni linguistici portano al sistema religioso dove la personificazione e la dominazione del fatto spirituale vengono a prendere corpo e strumento di cerimonie e riti che si propongono di stabilire un tramite con la divinità o con ciò che immanenza non è. Lingua, dunque, come tramite per fissare i riti e le cerimonie di un mondo che non si accontenta dell’immanenza ma che è alla ricerca di spiegazioni sui fini e gli scopi della vita che quest’ultima non dà. Cerimonie, riti, lingua e religione e ricerca di ciò che non è immanenza sedimentati nel tempo danno luogo alla tradizione. Questa è la vita stessa dei popoli che si sviluppa come continuità e che ha una sua <identità> pure nel suo costante e cangiante divenire. La nozione di è in fondo una creazione romantica, ma è una nozione che è al primo gradino di quello di nazione, come unità di cultura che tende coscientemente a una propria e specifica autonomia.
La nazione si costituisce attraverso un lungo travaglio di generazioni in cui si creano forme e modelli per cui la definitiva realizzazione il passato partecipa non meno del presente come resistenza e antitesi, in una opposizione dialettica che alla fine si acquieta in una sintesi. E viene ad aversi un fatto paradossale ma incredibilmente innovativo e costruttivo: a forme e modelli che si perdono perché ripudiati o trasformati al punto tale da non essere più riconosciuti, si vengono a sostituire altri modelli e altre forme che dopo una tradizione di credito più o meno lunga viene ripudiata o comunque trasformata chiudendo in tal modo il proprio ciclo. E a tal punto il problema si complica perché appare legittimo chiedersi se, pur attraverso questa trasformazione, la nazione rimanga tale. Il problema è importante perché se si ripudia in toto la nazione, cioè il complesso della tradizione, si dà vita a reazioni a catena di ansie indefinite per cose nuove e portano a smarrimenti, disordine, moti di ribellione che sono lo scotto che ogni comunità paga quando, abbandonando un modello, si accinge a crearsene altri più adatti (o che si ritiene più adatti) al presente storico. Del resto, se si accetta la distinzione fra tempo e passato, fra tempo, meglio, vissuto e tempo ancora da vivere, è la lingua che fa da legame storico per la costruzione del futuro (per tutti questi problemi e per altri ancora cfr.,O. BUCCI, Cultura giuridica arbereshe e croata fra conservazione della tradizione e formazione di una nuova consuetudine Campobasso 2006 (Collana Genti, Popoli, Terra e Lingue del Molise, n. 1).
Se questo è l’incredibile scenario di ricchezza dei della Penisola, bisogna purtroppo constatare come manca una raccolta di questi ultimi organizzata in un sistema, che si iniziò, è vero, a compiere subito dopo l’unità d’Italia e prima del Conflitto Mondiale del 1915-1918 ma che poi la cultura nazionalista Fascismo blocco definitivamente preoccupata che questo a disgregare l’Unità linguistica (da compiere attraverso la toscana come aveva insegnato Alessandro Manzoni, dell’unità della parlata nazionale italiana) come presupposto l’unità politica e morale della Patria. Il problema, infatti, che occupò i nostri padri dell’unità italiana (la più difficile da rispetto a quella militare) era quella di riunire le miriadi di lingue culture italiane in una convivenza di armonie che mancava precedentemente, e soprattutto quella di individuare una unica nazionale intorno a cui muovere tutte le altre. Quale fosse sťultima parlata apparve chiaro, quella toscana, che aveva luogo al dolce stil nuovo e che si era protratta dal Duecento al Manzoni del risciacquare i panni in Arno. Il problema era come insegnare quella lingua, patrimonio solo di dotti e, quindi quali linee di apprendimento dare alle nuove generazioni: se insegnarla per mezzo delle parlate locali (o dialetti, come si usava già capziosamente a dire, e come tuttora si continua impropriamente a dire), metodo che presuppone l’amore delle piccole patrie locali per la grande patria nazionale, o insegnare l’idioma nazionale attraverso quest’ultima. Alessandro Manzoni si era posto questo problema e lo aveva posto in modo ineccepibile da un punto di vista scientifico chiedendosi:
a) quale fosse la natura delle lingue; b) quale fosse la vera lingua italiana; c) “come arve da essa quegli effetti che si hanno e che si vogliono da una lingua, e in ragione quali una lingua italiana si vuole e si dee valore” (la citazione è in A. MOMIGLIANO, alla voce Manzoni Alessandro, in EI, XXII, 1934, pp. 187-193 ed ivi in particolare p.190). Anche se Manzoni non scrisse le tre analisi scientifiche organiche sul tema linguistico che si era ripromesso, queste tre argomentazioni furono sviluppate nelle seguenti indagini: Sulla lingua italiana (lettera a G. Carena), Dell’unità della lingua e di mezzi di diffonderla (relazione al Ministro della Pubblica Istruzione, 1868) e relativa Appendice (1869), Lettera intorno al libro “De Vulgari Eloquentia” (1868), Lettera intorno al vocabolario (1868) – entrambe scritte a Ruggero Bonghi – Lettere al Casanova (1871). Il problema del rapporto fra Alessandro Manzoni e la lingua italiana è stato così ben individuato da M.SANSONE nel suo saggio sul Manzoni; in Letteratura italiana, I maggiori, vol.2°, Marzorati Editore, Milano, 1974 [Orientamenti culturali], pp.931 – 1013 ed ivi pp. 980 – 985 “Il problema che egli si poneva, e che si trova chiaramente indicato già nelle lettere dei suoi anni ancora giovanili all’amico Claudio Fauriel, è il seguente: come mai mentre in altre nazioni – specialmente la Francia – il linguaggio delle scritture, e quindi della letteratura, è così vicino e quasi affatto simile a quello parlato, in Italia esiste invece tanta diversità tra l’uno e l’altra? E come mai quel primo in Italia è così antiquato e quasi convenzionale? Come si può sfuggire in Italia al duplice rischio, o di dovere usare una lingua di deciso sapore dialettale e particolare (milanese, veneta, napoletana, ecc) se si vuole usare un linguaggio vivo e moderno, o, se si vuole usare una di doversi valere di un linguaggio stantio e accademico, e staccato dalla sensibilità e dalle esigenze dello spirito moderno? Come si può creare o costruire in Italia una lingua che sia insieme vive, unitaria, moderna ed eletta? E’ questo il problema manzoniano: la ricerca, sostanzialmente, delle novità e modernità della lingua d’Italia” (ibidem, pp. 981 – 982). Si comprende allora quanto importante sia l’inedito Sentir Messa. Libro della lingua italiana, contemporanea dei Promessi Sposi, curato e pubblicato postumo da D. BULFERRETTI, Milano 1923 che va letto comunque con Dell’Indipendenza d’Italia, a cura di F. GHISALBERTI, Milano, 1947 (ristampa di uno scritto inedito già pubblicato dal Bulgaretti nel corso del 1924 sul quotidiano torinese La Stampa) e ciò a dimostrare che anche se nel Manzoni era chiaro che l’idioma nazionale dovesse essere insegnato e appreso attraverso le parlate locali, di fronte all’impossibilità di compiere ciò, era il fiorentino che doveva barde: le ragioni e gli impulsi patriottici antichi superavano dunque assurgere a lingua nazionale anche se soffuso da pieghe lomdi gran lunga le necessità storico-linguistiche cui egli aveva a lungo atteso.
Il primo metodo (quello di insegnare l’idioma nazionale attraverso le parlate locali) fu dunque sconfitto e fu applicato il secondo. Ad essere sconfitto fu ad ogni modo lo stesso spirito del metodo manzoniano e con esso tutti i suoi epigoni, come quelli – sulla scia dell’insegnamento manzoniano – condotti dal De Sanctis, Boselli, Villari, Del Lungo, dell’Ascoli, del Morandi, e del Monaci. Le ragioni furono molteplici ma possono essere riportate a quattro:
a) per l’inesistenza di docenti che potessero far fronte ad un esigenza di cosi grande portata (indipendentemente dal fatto se la lingua nazionale dovesse o meno essere insegnata con o senza le parlate locali), elemento che non può e che non poteva meravigliare stante la scarsa redazione di vocabolari dialettali, di testi per traduzioni ed esercizi di grammatica delle parlate locali rispetto alla parlata nazionale che si diceva si volesse insegnare;
b) per l’imprecisione del concetto di dialetto (imprecisione che continua tuttora) e del suo rapporto con la lingua;
c) per la necessità di una formazione di una conoscenza nazionale che si temette potesse venir meno su e si fosse dato spazio alla diffusione dei linguaggi dei singoli territori che avrebbero diffuso con se anche le culture di cui erano portatori;
d) per la mancanza anche di una presa di coscienza della metodologia nel rapporto dell’insegnamento dialetto/parlata – lingua nazionale.
Se confrontiamo la situazione italiana con quella francese, si giunge ad un vero e proprio paradosso. Pur avendo la Francia raccolto e riunito tutti i patois e pur avendo riunito tutte le consuetudini giuridiche da loro derivanti (circa 360) sulla base della distinzione fra pays à droit contumier e pays à droit ecrit, con l’ordinanza ministeriale del Dicembre 1924 si ritornò alla Convenzione del 1793 che aveva stabilito la lotta contro il dialetto (dialect) per prescrivere invece l’obbligo del francese insegnato dal francese. In Italia invece con l’ordinanza dell’11 novembre 1923 si proclamò l’obbligatorietà di insegnare la lingua nazionale attraverso le singole parlate locali e i dialetti, ma questa ordinanza fu mai applicata perché a insegnare nelle scuola furono chiamati maestri elementari del tutto privi di conoscenze delle lingue locali, nella quasi totalità educati alla lingua toscana e impossibilitati perfino a poter dialogare o comprendere i ragazzi dei singoli territori della Penisola, in special modo nei territori dell’Italia meridionale: migliaia di giovanissimi furono di conseguenza allontanati dall’istruzione pubblica, danno non piccolo per la scuola italiana. Il fallimento fu tanto più grave perché due grandi studiosi, il Besta e il Solmi (quest’ultimo fu anche ministro di Giustizia) avevano ipotizzato la raccolta delle consuetudini giuridiche locali temporaneamente al progetto di preparare studiosi locali che amassero ritrovare le proprie radici. Così fallì il progetto di fare una Nazione di cultura e diversificate e distinte fra loro, presupposto di una Nazione federale, una nazione che fosse la Grande Patria che riunisse le Piccole Patrie che non dovevano mai essere abbandonate e dimenticate, secondo la felice espressione di C. TRABALZA, Dalla piccola alla grande patria, in Scuola e italianità, Bologna 1926 (cfr. B. TERRACINI, Rapporti tra i dialetti e la scuola, in Educazione nazionale, 1927). In questo scenario storico vanno studiati i rapporti linguistici di tutti i centri urbani della Penisola che sulla base di un fondo lessicografico latino (che aveva negletto gran parte le originarie lessicologie delle parlate delle genti prelatine e contemporanee a quella latina) si sono poi arricchiti di sovrapposizioni successive che rendono arduo individuare le ricadute storiche.
Fu dunque l’esigenza dell’unità politica (o meglio: di un certo modo di intendere l’unità politica) che sviò gli studi sui dialetti o parlate locali che vennero intesi non come riteneva C. DENINA (1731 – 1813) nelle sue Observations sur les dialects del 1797 “fratelli nati dalla medesima lingua primaria da cui si formò quel dialetto che divenne in seguito lingua dominante del paese “ma” figli della lingua alla cui “nazione appartengono”. E a nulla valse la convinzione, diffusa in tutti gli ambienti scientifici europei, che l’Italia fosse una situazione privilegiata per la sua infinita frammentazione dei linguaggi (riconosciuta tale da MADAME DE STAEL che affermò che l’Italia era “l’unico paese europeo i cui diversi dialetti vantavano ognuno un proprio «genio» indipendente”, così in Corinne, XVI, 1) e nella constatazione che ci fosse un concorso di ingegni che si impegnano nello studio del patrimonio linguistico- dialettologico. Non c’era infatti solo CATTANEO e il Politecnico ma il MANZONI linguista della lettera a G. Cattaneo che abbiamo già ricordato e poi B.BIONDELLI (1804 –1886) influenzato dall’opera di J.GRIMM di cui il Politecnico nel 1840 pubblicava il suo articolo sulla Grammatica di tutte le lingue germaniche ma che in gran parte disdegnava perché di fronte all’etnostoria preferì la parlata viva. Era un discorso iniziato alla fine del XVI secolo con LIONARDO SALVANI quando quest’ultimo recepì il termine diaaetos come parlata locale, subordinata alla parlata generale per cui si giunse nel XVIII secolo al binomio che contrappone lingua ai dialetti subalterni a quest’ultima per via dei loro utenti (scarsi, non diffusi su territorio come la lingua) e ristretti e frammentati perché scarsi anche per il territorio piccolo in cui sono diffusi. Fu appunto Biondelli a staccarsi da questa comune convenzione quando affermò nel suo saggio sui dialetti gallo-italici (1853) che necessitava (cfr. G. MAZZONI, Salviati, Lionardo, in EI XXX, 1936, pp. 586 – 587; B.TERRACINI; Bindelli Bernardino, in EI, VII, 1930, p.55; G.NATALE, DENINA CARIO, in El, XII, 1931, p.617] “ricercare quanto più copiosi appaiono i ruderi di antiche lingue onde i nostri dialetti compongonsì “fondandosi sul concetto di substrato come pietra angolare del cambiamento linguistico “ogni provincia parlò latino a suo modo …. non era in suo potere dimenticar interamente le forme né molto meno la nativa pronuncia .. delle antiche lingue che precedettero la latina … di qui appunto ebbe origine quella varietà di dialetti che distinguono tutt’ora le varie province d’Italia” (E.F. TUTTLE, Dialettologia, in El, Appendice Va A-D, 1991, pp. 827 – 828 ed ivi p. 827] G. I. ASCOLI (1829 – 1907) comprese tutto questa ed andò fino in fondo affermando la validità di “motivi etimologici nelle trasformazione del linguaggio con gli Studi Critici , e i Saggi ladini, pubblicati nell’Archivio Glottologico (1873). Non aver ascoltato l’Ascoli fu tanto più grave perché l’Archivio Glottologico era nato proprio per esplorare scientificamente i dialetti italiani (o meglio i parlari o parlate italiane) ancora superstiti e da accogliere, come disse l’Ascoli nel Proemio al 1° numero dell’Archivio, 1873, “studi speciali anche sulle varie lingue dell’Italia antica e pur sulle estranee che alla loro immediata illustrazione possano giovare: “fra queste estranee era compreso il celtico (Proemio, p. XXXV, XXXIX ess) (cfr. P.E. GUARNERIO, in RFIC, XXXV, p. 246 e ss; P.G. GOIDÀNICH, alla voce Ascoli, Graziadio Isaia, in EI, IV, 1929, pp. 817 – 819). L’esigenza di dare una unità culturale (male intesa comunque) parallela quella politica (compiuta dalle classi alte con l’appoggio di poteri estranei alla Nazione italiana) frenò quel dibattito apertosi dal Denina e che si chiuse con l’Ascoli, del tutto inascoltato ma che la scienza glottologica tedesca aveva stimato grandemente tanto che proprio a Friedrich Christian Diez fondatore della glottologia romanza (1794 – 1876) egli dedicò i Saggi ladini dell’Archivio Glottologico italiano nel 1873 (cfr. G. BERTONI, in EI, XII, 1931, pp. 787 – 788). Dopo la 2° guerra mondiale l’alfabetizzazione condotta dal Fascismo in senso uniculturale fu messa in discussione dalla grande comunicazione della stampa e degli audiovisivi e si impose un’unica grande lingua dovuta anche alla gigantesca emigrazione dalla campagna ai centri urbani. Sono state le parlate più importanti socialmente e politicamente a formare la nuova lingua e sul fondo toscano-fiorentino cui la Scuola gentiliana aveva imposto l’educazione nazionale per cui, come avveniva parallelamente per il mondo politico, anche per la lingua nazionale si sono sovrapposte le parlate della Lombradia e del romanesco sul fondo e nell’innesto profetizzato dall’Alighieri e imposto dal Manzoni (anche se non con il suo spirito) con il venir meno di tutta la tradizione linguistica delle altre parlate italiane. L’introduzione dell’inglese ha fatto il resto (1.BALDELLI, alla voce Lingua, sotto l’ampia voce Italia di cui è parte, in El, Appendice IV, II vol.; 1979, pp.262 – 264). In questa situazione la parlata di Sant’Agapito e delle miriadi di parlate locali si spengono e tacciono.

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5. La comunità di Sant’Agapito, sorta nel IX secolo su un costone del massiccio matesino antistante la valle di Isernia, nasce indipendentemente e come alternativa all’antico abitato di una presenza monacale nella valle e alla presenza abitativa delle Temennotte, probabile centro sannita.
Al rischio di dover scomparire non poteva dunque sfuggire la comunità di Sant’Agapito. Sorta dalla necessità – da parte della comunità monastica del convento posto nella valle lungo il passaggio della via Latina, che univa Venafro a Isernia e venutasi a formare nel sito dove precedentemente aveva trovato sede una villa romana (di cui sono testimoniate fonti epigrafiche riunite da studiosi e conservate nel museo archeologico di Isernia) che nel culto del martire Agapito in periodo dioclezianeo era diventata punto di riferimento della cristianizzazione del territorio – di sfuggire alle violenze frutto delle scorrerie di bande armate provenienti da una Lucera già in parte islamizzata e che precedentemente, avevano lacerato le comunità di Sepino, Guardiaregia, San Polo, Bojano, San Massimo, Roccamandolfi, Cantalupo, Castelpizzuto, Longano, Pettoranello, e Isernia fino alla piana di Macchia per poi poco sarà diraggiungere il monastero di San Vincenzo che di li a strutto. Al termine della valle dove scorreva e scorre il Fiume Lorda, c’era (e c’è) un costone disabitato, lungo un tratturo che da Isernia portava a Gallo e a Letino e dove svernavano e si rifugiavano le mandrie di pecore e capre dei borghi matesini insieme a Roccamandolfi. Su quel costone i famigli dei monaci e i monaci stessi del Convento trovarono rifugio e si insediarono definitivamente, isolandosi dagli abitanti della prospiciente valle che si apriva verso Isernia dando vita, da allora, ad una sola comunità storica con pari intenti economici e culturali che si protrarranno fino ai nostri giorni con Gallo, Letino e Roccamandolfi e che non saranno mai stabiliti con l’abitato di Isernia neppure con quello di Longano né tanto meno con gli abitati di Monteroduni, di Pettoranello e di Castelpizzuto. Non è questa la sede per ricostruire la storia (sociale e politica, in una culturale) della comunità di sant’Agapito e quanto prima ci ripromettiamo di dare alle stampe una mole di dati che abbiamo avuto modo di raccogliere in oltre trent’anni di ricerche negli archivi di Isernia, di Campobasso, l’Aquila e Napoli (archivi pubblici, privati ed ecclesiastici). Qui va solo, per ora, ribadito che caratteristica della comunità del borgo è questa incredibile vocazione matesina che si è concretizzata nel tenere fermi e perenni i legami inscindibili con le comunità di Roccamandolfi, Gallo e Letino, autorizzati, permessi e favoriti dalle famiglie patrizie che a turno, fino ai Caracciolo, hanno dominato e protetto Sant’Agapito, con la conseguente totale estraneità della sua storia con la storia di Isernia (fino ad escludere perfino il collegamento viario con la città) e rapporti di isolamento con Castelpizzuto, Longano, Monteroduni e perfino con Pettoranello che nel periodo della presenza dei Caracciolo era pur unito nello stesso titolo patronale (Principe di Pettoranello, Marchese di Sant’Agapito). A sigillare il legame tra Sant’Agapito con le restanti comunità matesine può bastare questo dato: fino a tutti gli anni sessanta del XX secolo, e sulla base di un accordo stilato fra la Camera di Commercio di Caserta (prima, di Terra di Lavoro) e la Camera di Commercio di Campobasso (al tempo dell’accordo non esisteva ancora la Regione Amministrativa del Molise, né tanto meno la Provincia di Isernia, e Sant’Agapito era provincia di Campobasso) nei comuni di Roccamandolfi, Cantalupo, Sant’Agapito e Monteroduni erano autorizzate alla distribuzione, al commercio e alla vendita di latticini (caratterizzati dalle non dimenticate fiscelle) solo i produttori di Gallo e Letino. La valle, per gli abitanti di Sant’Agapito, è stato sempre e solo un riferimento meramente di produzione agricola per le proprie esigenze economiche, ma i prodotti, lo scambio di derrate, l’acquisto e la vendita dei beni acquisiti e che venivano commercializzati avevano come punto di riferimento i borghi del Matese da cui venivano importanti i prodotti latticini. A partire dagli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta del secolo scorso si è dato anche il caso che contadini di Sant’Agapito vendessero prodotti agricoli ad Isernia nei giorni di mercato (il giovedì e il sabato), ma questo fatto avveniva in modo meramente individuale e spontaneo senza alcun sistema organizzativo che facesse da mediazione. Si aggiunga che bisogna attendere gli anni Cinquanta del secolo scorso per vedere ragazzi di Sant’Agapito frequentare le Scuole Medie inferiori e superiori di Isernia. Precedentemente si erano avute solo presenze nel seminario di Venafro (un paio) e nel convitto diocesano di Isernia (almeno tre). Ed è ben noto che veniva proclamato a propria fortuna stare a servizio (come si diceva allora!) delle case delle famiglie « patrizie » (si fa per dire!) dell’isernino le cui masserie avite, vere e proprie case coloniche in agro Sant’Agapito, avevano avuto necessità di inservienti, o di mamme di latte. Ma a sera, tutti nelle proprie case nel borgo di sant’Agapito, nel costone del Matese. La ferrovia Caianello-Isernia, con la stazione di sant’Agapito-Longano, non portò granché nella valle, anche quando fu creata la fabbrica di mattoni, se non qualche immobile che si aggiungeva all’antica masseria presente prima che la ferrovia fosse costruita nel sec XIX. Si dovrà attendere il secondo dopoguerra perché nasca una vita collettiva allo scalo ferroviario. Del resto le masserie, dalla Lorda (lungo le cui rive era stato creato il mulino da tempi antichi e che poi produrrà la luce elettrica portata nel borgo solo negli anni trenta del XX secolo) fino allo scalo ferroviario erano usate solo come base per il lavoro agricolo fatta eccezione per l’antica masseria Valiante presso l’antico ponte romano, così come Coriemano, che trovò unità abitativa solo nel secondo dopoguerra e verso la fine degli anni Cinquanta. Pietradonata è stata sempre stazione di cavalli per famiglie di Isernia che avevano le loro case di campagna in agro sant’Agapito. Ad avere una unità permanente abitativa è stato sempre il sito Temennotte la cui comunità ha una radice antica, certamente precedente al borgo di Sant’Agapito, ritrovando le origini del suo nome nel greco Tepevoç/temenos, recinto, riconoscendosi forse nell’ampia aia segno di un perduto teatro greco, probabilmente traccia di quel Samnium che la dottrina si affanna a ritrovare in altre probabili località ma che lo scrivente determinò come quello delle Temennotte in uno scritto ignorato dalla dottrina-Temennotte non ha mai avuto un rapporto di sintesi con l’abitato matesino e si è affacciato direttamente nella Valle con un rapporto diretto con Isernia, che l’abitato rifugiatosi dalla Valle sul costone matesino ha sempre disdegnato (cfr. O. Bucci, La città chiamata Sannio, in Samnites, Gens Fortissima Italia, anno I, n. O., pp. 48-49, in un trittico di spunti critici dal titolo Samnites Nugae: II, $15 del Periplo del Mar Eritreo; II, Platone, e p VII, 353 a-e; III Strabone, EA, 11-12; IV, La città chiamata Sannio, ann VII, I, n. O, gennaio 1991, pp 4349). In una situazione siffatta il patriziato napoletano protegge l’abitato di Sant’Agapito (e di Temennotte) dalle influenze della Valle di Isernia, consentendogli i soli avvicendamenti con il Matese ed escludendo ogni rapporto con Isernia, collegandosi con la sola Pettoranello non fosse altro perché i Caracciolo, tenendo il titolo di Principe di Pettoranello e Marchese di sant’Agapito univano i due abitati privilegiando tuttavia quest’ultimo perché vi risiedevano, a differenza del primo che tenevano solo come titolo patrizio ma da cui rimasero sempre estranei e dove facevano visita di tanto in tanto. Il Palazzo (mai chiamato Castello) con un torrione poi modificato nell’immediato secondo dopoguerra stava lì a dimostrare il privilegio che essi avevano per la comunità di Sant’Agapito che essi proteggevano, proteggendo se stessi, da ogni intrusione esterna. Del resto il Borgo abitativo era di fatto una sola struttura abitativa imprendibile e inaccessibile, con le case l’una accanto all’altra formando una sola incredibile cinta muraria inespugnabile: che di notte chiudeva se stessa agli altri chiudendo la porta (e porta, la Porta per eccellenza, sarà sempre chiamata successivamente dopo la prima guerra mondiale quando – solo allora- sarà eliminata): al di fuori della porta (e il piazzale antistante sarà sempre chiamato “Fuori la Portal Fora la Porta”) c’erano solo le case delle guardie del Principe/Marchese, veri e propri «bravi» che da tempo immemorabile avevano un proprio «castrum» , accampamento, a difesa del borgo e del palazzo e che erano a guardia della porta dopo che questa veniva chiusa. E campata sarà poi chiamata ciò che rimaneva e resta del castrum, nel senso di uno spazio determinato finalizzato allo scopo di proteggere l’abitato, da campo. Il borgo era dunque inavvicinabile a tutti, tanto che era ben noto che giù nella valle dove sarà poi creato il raccordo ferroviario all’altezza di Pietradonata (dove era posizionata la stazione dei cavalli, gestita dalle famiglie di Isernia che avevano i casolari in agro di Sant’Agapito), era presente una pattuglia di fedelissimi al Marchese (e Principe) che fermava chiunque volesse arrivare all’abitato posto nel costone della montagna matesina e che avvertiva il marchese (e principe) del passaggio con un richiamo di fuochi. Del resto, non si arrivava facilmente al borgo perché le strade erano due, attraverso Temennotte (dove si arrivava oltrepassando un ponticello sulla Lorda che probabilmente alle origini era formato da chiatte, se non si giungeva direttamente dalla Via Latina, anche qui attraversando un piccolo ponte di cui è rimasta la fattura romana) e poi lungo il costone della collina ( «Le Coste») si raggiungeva l’abitato (anche in una variante di mulattiera, ormai abbandonata ora ma che è stata percorsa fino a tutti gli anni ottanta del secolo scorso e che prendeva all’altezza di Colle Merindo per giungere sotto le Coste), o attraverso la valle, superando il magnifico ponte sulla Lorda (di fattura e di purissima costruzione romana, superbamente forte, ed eretto probabilmente su un fondale sannita) e inerpicandosi poi fino al costone matesino ( «la Mania») sede dell’abitato: la strada di selciato bianco fu creata solo nel 1931 e bisognerà attendere il 1961 perché venisse asfaltata: in quei trent’anni ci fu un addetto alle strade (“stradaiuolo”) che ne curava i margini e gli argini. Tutto questo spiega perché Sant’Agapito è stata sempre e comunque incredibilmente chiusa ad ogni richiamo della Valle, chiusa ad Isernia e alla sua vita sociale e culturale con cui non ha mai avuto rapporto alcuno nè di comunanza nè di sudditanza, estranea quindi. La chiusura e l’estraneità erano anche (se non soprattutto) di carattere culturale. Fino a tutti gli anni Cinquanta del secolo scorso, solo per fare l’esempio più eclatante, nel rito matrimoniale cattolico era solo il nubendo che offriva l’anulus alla sposa ma esso la riceveva da quest’ultima secondo l’antico schema ebraico, ed è ben noto che da Venafro fino a Bojano (dove sorgeva una Giudecca nel borgo di Civita Superiore tuttora intatta anche se disabitata) attraverso Monteroduni, Sant’Agapito, Castelpizzuto, con una variante su Carpinone, l’elemento ebraico era ben presente, testimoniato da numerose epigrafi e stelle di David incise sulle pietre e sui portali delle case oltre che da costumi e consuetudini di impressionante continuità con il passato giudaico, come l’uso di deporre i defunti in lenzuoli bianchi nelle casse mortuali. Anche il legame al rito giornaliero della Messa, era di sapore antico: LUIGI SETTEMBRINI nelle Ricordanze della mia vita (Milano, 1964), vol, I p. 25 e p. 31, presenterà il Marchese di Sant’Agapito [Intendente anche della provincia di Terra di Lavoro;: e questo dimostra – se mai ve ne fosse bisogno ancora, a proposito di un’antica polemica su quale fosse il luogo di nascita di Celestino, nato in Terra di Lavoro secondo la bolla di canonizzazione emanata ad Avignone nel 1313-che la terra di Isernia è Terra di Lavoro perché le diocesi di Isernia e di Venafro, poi unite in eadem personam episcopi sottoposti alla giurisdizione della metropolia di Capua, erano parte integrante della Terra di Lavoro; e dimostra anche il privilegio che avesse Sant’Agapito per avere come suo patronus il marchese Caracciolo, quale intendente di un territorio del Regno delle Due Sicilie] come bigotto incomparabile che tutelava è conservava pretese reliquie (p. 25) e che “ogni mattina in chiesa serviva a Messa come un sacrestano, ed ogni domenica radunava tutti i suoi impiegati, se li menava dietro come pecore, e tutti in Chiesa a cantare l’ufficio della Vergine, udire un poco di Messa ed una predica: e guai a chi mancava. Mi pare ancora di vederlo quel figuro d’intendente con tanto di bocca spalancata cantare salmi e volgersi intorno e farsi crocioni con la mano che parea giuocasse a spadone” (p.35). In questo scenario in un ambiente storico-sociale siffatto, non deve meravigliare se la comunità di Sant’Agapito risulta la più isolata della storia del territorio matesino prospiciente alla vallata isernina, e la meno implicante, nel bene e nel male, nell’ordinamento giudiziario del tribunale di Isernia: non c’è traccia di litispendenze presso le preture locali implicanti cittadini di Sant’Agapito, nè di misure giudiziarie di natura penale rilevanti nel circondario giudiziario di Isernia. Il Marchese di Sant’Agapito e Principe di Pettoranello era per le due comunità (ma soprattutto per la comunità di Sant’Agapito dove risiedeva) padre-padrone, giudice di ogni atto e fatto che accadeva nel suo territorio, molto più del Principe Pignatelli per la sua Monteroduni. Per capire quanto rilevante fosse il controllo dei due patrizi su Sant’ Agapito e Pettoranello da un lato (i Caracciolo) e su Monteroduni dall’altra (Pignatelli) basta un dato.
Nel Catalogo degli individui della provincia di Molise datisi al brigantaggio, estratto dalle liste dei sottoprefetti , sindaci, comandanti delle guardie nazionali e comandanti dei carabinieri reali, a seguito della circolare 25 ottobre 1862, a far data 7 febbraio 1863, conservato nell’archivio di Stato di Campobasso, compaiono ben 244 persone provenienti da tutti i comuni molisani [1 da Acquaviva Collecroce; 1 da Agnone; 1 da Bagnoli del Trigno; 11 da Baranello; 6 da Bojano; 1 da Bonefro; 1 da Campolieto; 1 da Campodipietra; 3 da Campomarino; 1 da Cantalupo; 9 da Capracotta; 15 da Casacalenda; 2 da Casalcipriano; 4 da Castropignano; 1Castel del Giudice; 4 da Castelluccio Acquaborrana; 7 da Colletorto; 4 da Civitacmapomarano; 7 da Frosolone; 5 Guardiaregia; 1 da Guglionesi; 3 da Isernia; 1 da Jelsi; 1 da Larino; 2 da Longano; 1 da Macchiagodena; 1 da Molise; 1 da Macchia Val Fortore; 3 da Matrice; 4 da Montecilfone; 3 da Montorio de’Frentani;
3 da Montenero di Bisaccia; 3 da Montenero Valcocchiara; 1 da Montelongo; 3 da Montaquila; 5 da Pietrabbondante; 1 da Pizzone; 3 da Pozzilli; 2 da Portocannone; 2 da Ripalimosani; 3 da Rionero (Sannitico); 2 da Roccasicura; 7 da Rovello; 2 da Roccamandolfi; 7 da Scapoli; 3 da Sepino; 1 da Sesto Campano; 2 da San Pietro Avellana; 1 da San Polo Matese; 1 da San Giuliano di Puglia; 4 da San Martino in Pensilis; 8 da Santa Croce di Magliano; da S. Elia a Pianisi; 1 da Santa Maria Oliveto; 2 da S. Angelo in Grotte; 12 da San Massimo; 1 da Tavenna; 1 da Vinchiaturo; 2 da Vastogirardi] fatta eccezione di Monteroduni, Sant’Agapito e Pettoranello, le località, cioè dove il controllo del territorio e dei suoi abitanti è totale. Resta il problema del perché la legione Matese [la banda armata composta dai detenuti delle carceri borboniche da Alife, Caiazzo, Piedimonte, S. Angelo fino a Telese, liberati da Nino Bixio e guidati dal comandante Nullo che si spostò sui due versanti del Matese gettando sangue e violenza ovunque passasse, e di cui è testimonianza in miriadi di fonti e cronache del tempo] sia riuscita a sconfinare in Pettoranello e li ospitata dall’Arciprete Santoro e passasse invece da Sant’Agapito lasciando la comunità fondamentalmente immune da ogni violenza, ma di questo evento daremo conto nella pubblicazione su Sant’Agapito cui attendiano da anni (uno sguardo d’insieme è in O. Bucci, Apologia del Matese come apologo del Molise, Piedimonte del Matese, 2004). Sant’Agapito, dunque, comunità rigidamente controllata, chiusa in un borgo inespugnabile che si apriva al mattino perché i suoi abitanti si recassero al lavoro agricolo e che a sera si chiudeva al suo interno, con una porta centrale e due laterali i cui segni sono rimasti tutt’ora, sulla parte orientale del borgo e su quella occidentale dove da tempo immemorabile era stata posta una croce di fattura greca su capitello corinzio probabilmente portata dalla valle al tempo dell’abbandono del convento dedicato al martire cristiano di epoca dioclezianea Agapito.
In questo borgo, chiuso al mondo esterno e rigidamente controllato dal patriziato napoletano fino all’unità d’Italia, la vita era cadenzata secondo i tempi e le ore del lavoro (ma non c’è il termine lavoro nella parlata di Sant’Agapito; c’è il termine fatica, come puntualizza Mario Maddonni nella IV sezione del primo volume della sua opera, che sostituisce nella parlata locale il termine lavoro della parlata nazionale) e del riposo. Il territorio di Sant’Agapito è ben conosciuto dagli abitanti del borgo, e viene sminuzzato e parcellizzato terra per terra, , angolo per angolo [cfr. la terza sezione, Puosct e tiemp/posti e tempi, sia per le località all’interno del paese, sia per quelli fuori dal borgo).
Tutti entravano e uscivano dalla Porta che chiudeva il borgo si che quella porta diventa il nodo della vita del borgo stesso. Fuori la porta si è sempre detto a Sant’Agapito, ed è come se si dicesse due volte «fuori/fuori» «porta/porta» perché, ricorda G. DEVOTO, in Avviamento all’etimologia italiana. Dizionario etimologico, Firenze, 1968, seconda ristampa delle 2° edizione, p.180 al termine «fuori», quest’ultimo deriva dal latino foris, “forma irrigidita di dativo, ablativo plurale con valore avverbiale dello stesso tema fora, ha radice DHWER/DHUR che indica la porta verso l’esterno, è largamente diffusa anche nelle aree indiana, slava, baltica, germanica”. Non risulta allo scrivente un rafforzativo più deciso di queste, tanto più che nella linguistica indoeuropea per i rafforzativi sono rari e questo di foris/DHWE DHUR ha dell’incredibile perché rarissimo.
Passata la Porta, si entrava nel borgo e ci si fermava nell’androne, da cui partiva il cortile del palazzo, per distinguerlo dagli altri due cortili, quello dei Valiante e quello dei Bucci, prima cortile dei Cimorelli come si legge nella fontana del XVII secolo lì eretta. Nell’ampio androne si affacciava la cappella Gentilizia (che sciaguratamente ha cambiato destinazione alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso diventando sede di un bar) e dove, dopo l’unità d’Italia, fu posta la sede del Comune/Municipio e l’ufficio telegrafico poi ufficio postale. Passato un arco, l’inoltro verso il prosieguo del borgo si biforcava entrando nell’abitato dei famigli e dei contadini, con due strade, l’una verso destra, che portava al cortile Valiante e alla Carbonara e l’altra che continuava in parallelo: l’incontro avveniva (e avviene) nel sito dove nel XV secolo venne costruita la parrocchiale, circondata dalla strada che dopo aver superato il cortile Cimorelli del XVII secolo (diventato poi cortile Bucci) si unisce al percosro stradale che portava poi, circondando tutta la parrocchiale, fino all’entrata di quest’ultima dopo essere passato accanto alla porta cui di fronte era la croce greca su capitello corinzio (e accanto alla quale sorgeva e sorse tuttora una casa effigiata dalla stella di David) raggiungendo, attraverso un cunicolo che sottostava la parrocchiale, il cortile Valiante e la Carbonara. La parrocchiale era vera e propria Chiesa Madre che si distingueva dalla Cappella Gentilizia e dalla chiesetta posta agli inizi del tratturo che portava, ben fuori dall’abitato della comunità, verso Gallo e Letino. Il borgo aveva un suo proprio carcere che bisogna ritenere, fino all’unità d’Italia, andasse ben al di là di camera di sicurezza, ma che era luogo di detenzione vero e proprio, ribadendo così la constatazione che il Marchese di Sant’Agapito era anche giudice dei suoi subordinati, e proprio padre- padrone. All’esterno, e in parallelo alla porta che proteggeva il palazzo, c’era il torrione modificato poi nell’immediato secondo dopoguerra ma la cui conformazione si era delineata quando la famiglia Caracciolo dopo l’unità d’Italia si ritirò definitivamente a Napoli e il palazzo fu diviso dai due rami della famiglia Di Pilla (i cui membri erano stati fino ad allora i fiduciari del Marchesato) in due omogenei blocchi immobiliari chiudendo ogni passaggio al loro interno. Sotto il pavimento della Chiesa Madre da tempo immemorabile si seppellivano i morti e l’uso venne meno solo con l’applicazione delle leggi napoleoniche in periodo murattiano quando fu eretto il cimitero nella Valle e questa fu la sola vocazione verso il territorio di Isernia, venuta meno oltre un secolo dopo, quando si diede vita al nuovo cimitero sul costone matesino, non lontano dalla Chiesetta al di sopra del percorso viario fatto a scaloni (poi distrutto sciaguratamente) all’imbocco del tratturo che portava e porta a Gallo, Letino e Roccamandolfi: il Matese si riprendeva così i suoi abitanti, anche dopo la loro morte, non lasciandoli più nella Valle: il costone matesino riaffermava ancora una volta la separazione dal luogo che undici secoli prima aveva procurato lutto e sangue agli abitanti del Convento sorto intorno al culto di Agapito. Questa vocazione matesina non venne meno nemmeno negli anni Ottanta del secolo scorso quando si tentò, fra lacerazioni senza fine, di creare a Temennotte, un borgo di estranei al tessuto culturale del territorio e il costone del Matese riaffermò la sua preminenza sulla valle.
La vocazione matesina, dunque, da oltre undici secoli, caratterizza l’abitato di Sant’Agapito, anche quando si espande nella valle, quasi che una forza irresistibile lo costringa a riflettere e a meditare sulle sue montagne e a indurlo rimanere sul Matese dove i suoi scalpellini si resero famosi nel lavoro e nella levigatura delle pietre (che ricoprivano l’ampia ed estesa piazza antistante la Porta – for’ la porta- le “licie”; e che formavano la base per i gradini delle scale, del borgo e delle masserie, all’interno e fuori dal borgo stesso, “sotto le finestre” che guardavano e guardano il Montelongo e lo strapiombo della Lorda e quella che portava alla valle (“attuorn la mania”) e che nel gruppo di case costruite intorno ad un mandorlo di cui si è persa la memoria, risentiva del bisogno e delle necessità o quasi fisica di uscire definitivamente dal borgo, quasi di fuggire, ma di rimanere comunque legati al costone matesino, sotto la roccia (ru pies’k) che comunque difendeva l’abitato.

6. Linguaggio e lingua della comunità di Sant’Agapito come rappresentazione storica della sua memoria.
In una situazione siffatta e tenendo conto di questi condizionamenti (geografici, ambientati ma soprattutto storici e culturali) il linguaggio di Sant’Agapito va considerato come un linguaggio che si è mantenuto in gran parte intatto dando vita, a mano a mano che si avevano nuove immissioni semantiche, ad una lingua propria che ha cadenzato i momenti storici protrattasi nel tempo con una incredibile conservazione di rapporti linguistici che ne fa un unicum nella storia e nello sviluppo dei linguaggi del territorio circostante. Mario Maddonni ha compreso con questo suo lavoro scientifico (perché di lavoro scientifico si tratta) ciò, perché ha dato vita ad una Raccolta che storicizza il linguaggio di Sant’Agapito al 2009, ora, quindi, al momento della sua hic et nunc, qui ed ora, registrando la parlata dei suoi vecchi, dei suoi coetanei e dei suoi figli, mettendo insieme esperienze semantiche dell’oggi, di ieri e dell’altro ieri, del passato vicino e del passato lontano, per consegnarlo alle generazioni future. Una Raccolta siffatta potrà far rabbrividire l’Accademia blasonata ma chi scrive, che si onora di far parte dell’Accademia (ma non di quella blasonata, e bisognerebbe capire cosa si intende per “blasone” di cui lo scrivente ne ha da vendere, scientificamente, per essere nell’Accademia da oltre quarant’anni e per avere nel suo Curriculum un ampia presenza di studi indeuropeistici che lo hanno portato in anni lontani ad una polemica con maestri come Georges Dumezil e Giuliano Bonfante fra i massimi rappresentanti della linguistica europea del XX secolo, polemica che ha segnato non poco il suo percorso scientifico), condivide totalmente l’impostazione scientifica che Mario Maddonni ha dato al suo lavoro, proprio perché, da non addetto ai lavori, si è liberato dai vincoli di un rigidismo di scuola che avrebbe inaridito i risultati della sua ricerca. [cfr. O. Bucci, La pretesa unità religiosa dei popoli cosidetti indoeuropei, a proposito di una recente pubblicazione, in RISG, XIII, III, 1969, PP 327-355; Idem, Unità giuridica indoeuropea, in Labeo, 21, 1975, 3, pp. 370-380; Idem, Gli Indoeuropei: il percorso della dottrina, in AA. VV, Antichi popoli europei. Dall’Unità alla diversificazione, Roma, 1992, a cura di O. BUCCI [Fondazione Europea Dragan. Editrice Universitaria di Roma. La Goliardia pp. 11-42; Idem Airyiana Vaeyah]; La Dimora originaria degli Arii e la formazione storica del principio dell’armonia cosmica, ibidem, pp. 43-118; Idem, Indo-Iranici, ibidem, pp. 189-210; Idem, Georges Dumezil tra il mito dell’Unità Indoeuropea e il dogma della perfezione intrinseca del diritto romano, Roma, 1995, ed. La Goliardica).
Che rimane positiva oltremisura.
Dalla puntuale e minuziosa raccolta della parlata di Sant’Agapito compiuta da Mario Maddonni può legittimamente dedursi che se la lingua è inscindibilmente unita al linguaggio, la lingua di questo abitato matesino è legata alla storia del suo territorio e del suo formarsi lento ma progressivo. Del resto ogni vocabolo, ogni singolo fenomeno linguistico ha una sua storia determinata per cui ogni distinzione di gruppi idiomatici si svela in tutta la sua relatività, come costruzione cioè dell’intelletto che li ha formulati e come abbreviazione schematica (e al tempo stesso sistematica, perché ogni schema è conseguenza di un sistema messo in opera) di risultati dell’esperienza storica e giuridica compiuta dal gruppo collettivo che ha dato vita all’idioma. E questo è tanto più vero se consideriamo la lingua come attività (e quindi nel divenire) e non soltanto nel fatto in sé (e di conseguenza nel suo momento statico) e se riteniamo che questa attività si identifica con la storia del pensiero nel suo complesso. Se consideriamo questa serie di dati, possiamo dire che la cultura di un popolo, della gente di Sant’Agapito in questo caso, si misura sulla sua lingua, e dobbiamo essere grati a Mario Maddonni se con la sua raccolta ci ha dato la rappresentazione linguistica della sua memoria storica. E poiché la lingua è inscindibilmente unita al linguaggio, ciascuna lingua è liberazione dall’angustia del vivere storico dell’ambiente in cui si vive, liberazione sociale, dunque, liberazione storica soprattutto, e quindi anche, riandando a Giambattista Vico, poesia o, riandando a Benedetto Croce, estetica. Ogni comunità, cioè, ha una sua propria poesia e una sua estetica che si esprimono nel linguaggio storico che gli è proprio e che diventa così poesia di quella comunità e non di un’altra. Ma l’espressione linguistica è la resa storica del linguaggio e questa è la conseguenza dell’attività dell’uomo: la lingua è quindi l’uomo ed è dunque l’uomo a fare e ad essere estetica, per cui poesia ed estetica si trovano tutt’insieme nel linguaggio di Sant’Agapito. La lingua di Sant’Agapito diventa così poesia, esperienza, pensiero estetico e soprattutto storia, la nostra storia.
Di quella storia, della storia del borgo di Sant’Agapito e dei nostri borghi rurali disseminati in tutto l’Appennino italiano, ci si è spesso vergognati, perché il linguaggio della tólic/polis si imponeva sul linguaggio della chora, della campagna,e proclamava con arroganza che quest’ultimo era inferiore e quindi suddito a quello della città e non paragonabile, per bellezza ed estetica, al linguaggio della città, della polis, imponendosi così la concezione, del tutto diffusa e impropriamente accolta senza pudore alcuno, del sorgere del dialetto come degrado linguistico della lingua, e quindi interiore a quest’ultima.
Anche per questa ragione va rifiutato l’uso del termine dialetto e va invece affermata la preferenza del termine parlata in suo luogo, se non proprio di lingua, la lingua di Sant’Agapito, appunto, nel nostro caso.
E il punto diventa quello di individuare la connessione fra la lingua e il linguaggio e ribadire che il linguaggio è l’anima della lingua per cui non c’è lingua senza linguaggio perché linguaggio vuol dire tonalità, musica, colore della lingua: il linguaggio muta con i sentimenti attraverso cui si esprime, ed esprimendosi in questo o in quel modo determinato, muta anche la lingua. E si comprende ancor più come la lingua diventi un sinonimo di liberazione.

Tornano alla mente ricordi amari: genitori che si vergognavano di parlare la loro lingua in presenza dei figli trasferiti in città, per non metterli in imbarazzo per l’evidente disagio che mettevano loro in presenza di coetanei; bimbi che si vergognavano di parlare la loro lingua materna sol perché i loro coetanei non la parlavano o sol perché veniva derisa una volta ascoltata; giovani e uomini (e donne) adulti che si recavano a lavorare nelle regioni del Nord d’Italia e che ritornavano pasticciando l’una e l’altra lingua, quella materna e quella appena conosciuta, rinnegando la prima e restando estranei all’anima della seconda, del tutto dissociati rispetto ad entrambe le lingue, senza vergogna alcuna perdendo ogni memoria delle proprie radici, dimenticando i propri Lari e i propri Penati.
E ritorna allora alla mente Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto XXXVI, 124-139

“La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
Innanzi che a l’ovra inconsummabile
Fosse la gente di Nembrot attenta:

chè nullo effetto mai razionabile
per lo piacere uman che rinnovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.

Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;

e El si chiamò poi: e ciò convene,
chè l’uso d’i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.”

Indipendentemente dalla figura di Nembrot (o Nembrad dall’ebraico omonimo), l’eroe dei primi tempi dopo il diluvio secondo la Bibbia (Genesi, X, 8-10) e che Dante ricorda anche in Inferno XXXI, 34-81 e Purgatorio XII, 34 e ss., e al di là della constatazione che solo per la vicinanza materiale del racconto biblico si
fece poi intervenire Nembrod nella costruzione della Torre di Babele e nella conseguente confusione delle lingue, Dante qui afferma che ogni lingua (e come l’ebraico che invece nel De Vulgaris Eloquentia 1,V1,4,7, egli aveva ritenuto di origine divina e quindi incorruttibile fino alla confusione delle lingue rappresentate dalla Torre di Babele) è frutto dell’effetto razionabile e quindi soggetta a corruzione per cui anche ad essa è estensibile il principio della continua instabile e mutabilità e quindi del loro carattere storico ed evolutivo. E ciò in quanto nessun prodotto della ragione umana (l’effetto razionale, appunto) è stato durevole per sempre, bensì è stato costretto a modificare continuamente per l’instabilità del gusto (piacere) che si rinnova perennemente secondo l’influsso degli astri (seguendo il cielo). Il principio dell’Alighieri, del resto, si riallacciava a quello di Aristotele e di S. Tommaso (cfr. P.ROTTA, La filosofia del linguaggio nella patristica e nella scolastica, Torino, 1909, p.186 e ss), e Dante dà un esempio di tale principio oltre che ad affermarlo in linea di massima: il nome di Dio in ebraico che originariamente era 1, diventa poi El e ciò è spiegabile, aggiunge l’Alighieri, perché “l’uso de mortali è come fronda in ramo, che sen va e altra vene”, ripetendo pedissequamente Orazio, Ars poetica, 60-62 [ut silvae foliis pronos mutantur in annos, prima cadant, ita verborun vetus interit aetas, et invenum ritu florent modo nata vigentque], Convivium, 1,V,7-8; II, XIII, 10 e De Vulgari Eloquentia, 1,1X,6-10. Sì, davvero Dante ha ragione, perché il linguaggio è poesia ed è estetica, ed è estetica e poesia anche quando esso appare “come fronda in ramo che sen va e altra viene”: così sono i linguaggi di tutti i borghi d’Italia, così è il linguaggio di Sant’Agapito, poesia ed estetica.
7- la raccolta dei termini e delle espressioni abituali della parlata della Terra di Sant’Agapito come stratificazione di culture diversificate che hanno dominato il territorio.
Sulla base di tutto quanto abbiamo esposto si legga pure la Raccolta dei termini e delle espressioni della parlata delle terre di Sant’Agapito nel versante del Matese di Mario Maddonni la quale si divide in due nette partizioni, la prima che raffronta il vocabolario della parlata locale con quella nazionale e la seconda che confronta il vocabolario della parlata nazionale con quella locale.
La prima parte (raffronto fra il vocabolario della parlata locale di Sant’Agapito con quello della parlata nazionale) si apre con alcuni suggerimenti per la lettura (e per la pronuncia) cui fa seguire una essenziale pagina introduttiva che il dotto ed esemplificativo titolo di ‘p’capi (per comprendere o, meglio, per capirci), una dedica (meravigliosa, non fosse altro per quell’a figl’m perché è figl’m: a mio figlio, perché è mio figlio”: non deve dare alcuna giustificazione, basta questo, ed è tutto), una premessa che spiega la suddivisione del lavoro in otto rubriche (che l’autore chiama «famiglie» ed ha pienamente ragione):
p’rzun e par’ntera (persone e parentela)
ja’nmal (animali)
puosct e temp (località e tempi)
fati’ch e str’ment (lavori e strumenti)
chiant e ierv (piante e erbe)
fa caccosa (verbi)
ru riesct (il rimanente)
Appendice
mod’d’ dir ( modi di dire)

La seconda parte (raffronto fra il vocabolario della parlata nazionale su quella locale di Sant’Agapito):
persone (p’rzu’ne)
animali (ian’ma’l)
località e tempi (puosct e tiemp)
lavori e attrezzi (fati’ch e sct’mient)
verbi (fa’caccosa)
il rimanente (ciò che c’è dopo, ciò che resta] (tutt ru riesct)

Prima di analizzare nello specifico la parlata di Sant’Agapito va rilevata la cosiddetta calata del linguaggio che porta quest’ultimo ad essere un caso unico nelle parlate matesine, raffrontandosi forse solo con la parlata di Roccamandolfi, «strascicando il termine con l’aggiunta spesso del ve come per l’affermativo sì (sì
davvero, “scine ve”).
E va poi sottolineata una continuità incredibile fra le origini indeuropee della semantica delle nostre parlate europee e l’attuale parlata di Sant’Agapito: il posporre, come avviene nell’indeuropeo delle origini, l’aggettivo possessivo al sostantivo cui è correlato, con un fondo di arcaicità incredibile di cui è testimonianza così precisa solo nell’iranico antico e nell’indovedico e, probabilmente nel miceneo: sor’ma per mia sorella, frat’m per mio fratello, zian’m per mia zia, figl’m per mio figlio dove il possessivo posposto indica ancor più il possesso che se viene anteposto ed è ovviamente inteso più lontano (così per sor’t, patt, figl’t, cainat’t, zian’t, per tua sorella, tuo padre, tuo figlio, tuo cognato, tuo zio).
E poi c’è un terzo dato da sottolineare prima di entrare nell’individuare le varie stratificazioni del linguaggio locale di Sant’Agapito, ed è la constatazione, cui prima si è fatto cenno, che Mario Maddonni riunisce tutti i termini che lui ricorda del passato insieme a quelli dell’oggi, al 2009 dunque, registrando la ricezione di tutti i nuovi vocaboli che i mass media (televisione, giornali ed altro) hanno introdotto sovrapponendosi alla parlata locale. Non è vero che non esiste una regola per trasmettere nello scritto la parlata espressa locale (parlata, precisa Maddonni, che si chiama tale perché da sempre è stata solo parlata: non è una cacofonia né una tautologia ma una splendida specificazione), ma è vero che la spontaneità dell’opera da lui compiuta gli consente anche di andare al di là delle regole, tanto più che la scelta di usare il termine parlata (com’parlavam) e non dialetto lo mette fuori dall’Accademia, ma lo rende studioso libero, perché l’accademia l’avrebbe limitato non poco e soprattutto non gli avrebbe mai consentito, mai e poi mai, di pubblicare un’opera così preziosa non solo e non tanto perché egli non fa parte dell’Accademia, ma perché non avrebbe mai potuto impadronirsi delle regole dell’Accademia che sarebbero stati lacci per uno studioso (perché Maddonni resta uno studioso e uno studioso raffinato) come lui che opera e nasce fuori dell’Accademia e che chi scrive – uomo+ che vive nell’Accademia e ne è fiero-e che ha avuto la splendida avventura di redigergli questa presentazione – invece apprezza e stima.

Ecco dunque che non deve meravigliare che Maddonni registri per la stessa significazione termini che si sono sovrapposti nel tempo e che hanno lo stesso valore o che registri termini della parlata nazionale introdottasi nel linguaggio locale (ca’ per qua, in luogo di hiec, che sta per qui dal latino hic, caduto in disuso privilegiando il monosillabo napoletano anziché l’eredità latina).
E dunque l’intelaiatura del suo lavoro.
Dalla sezione p’rzu’n e par’ntera (persone e parentela), in entrambe le partizioni in cui è divisa l’opera, è da sottolineare il gruppo dei nomi di persone che nella dizione no’m d’cr’sctian storicizza un dato della storia civile e religiosa dell’abitato di Sant’Agapito che non individua tanto e solo i nomi di battesimo secondo il rito cristiano ma che individua la cristianizzazione di una società locale che non ammette estranei anche quando fa propri nomi di chiaro sapore ebraico come Davide, Gabriele, Raffaele, Michele e Sabbatino (con due “b” come Sabbàt ebraico) nonché Giuseppe Maria (del tutto cristianizzati ovviamente, dopo la predicazione del Nazareno) che si accompagnano all’onomastica dei primi secoli cristiani (Costantino, Cosma e Damiano, Antonio, Pasquale, Carmine) e dai secoli successivi (Agostino e poi Francesco e Domenico) accettando poi un onomastica germanica, probabilmente dall’epoca longobarda in poi (Alfredo, Ernesto, Ursula). E poi ci sono i cognomi che vengono enumerati tutti, compresi quelli di nuova immissione, e poi i soprannomi, che sono il cardine per capire la storia di una comunità e quindi gli avvenimenti centrali della comunità, attraverso i quali la comunità si confronta con se stessa, e infine gli alimenti e i piatti più ricorrenti nella tradizione della comunità, che Mario Maddonni raggruppa opportunamente sotto la dizione “cosa mangiamo” (ch’ c’magnam): vengono registrati nomi oggi caduti del tutto in disuso come”cascign” (radicchio selvatico), cicuri (pezzetti di carne di maiale), ciabbuttiegl (bocconcini fritti di pasta e fiori di zucca), c’illetta (peperoncino) e macch, polenta che ripete incredibilmente il macca latino arcaico, che è mescolare impastare, e che sta per polenta, e poi j’rvella per bieta e infiniti altri nomi, alla cui lettura rimandiamo nel testo della Raccolta, segno di una civiltà contadina.
La sezione animali (ian’mal) è la registrazione di un mondo contadino ormai del tutto scomparso, tanto più preziosa quindi da trasmettere alle nuove generazioni.
Così la sezione Puosct e tiemp che segnala la geografia storica della Terra di Sant’Agapito e delle Terre vicine con i nomi dei paesi circostanti, dei suoi abitanti (preziosi quelli diventati eponimi del loro carattere, come nazzuo per gli abitanti di Letino, recchi’luong per gli abitanti di Longano data dagli abitanti di Sant’Agapito) e delle località all’interno del borgo o immediatamente fuori o nel circondario fino a riportare l’onomastica delle montagne e, preziosissima, quella delle forre del fiume Lorda che ormai la nuova generazione non conosce più.
La sezione lavoro e degli attrezzi per quest’ultimo si qualifica dal titolo fatich’: non esiste lavoro senza fatica e la fatica è lavoro, ed anche qui c’è la registrazione di attrezzi non più in uso e quindi ancor più indispensabili da segnalare ai posteri. Fa caccosa indica l’atto dell’agire in questa sua manifestazione umana ed indica ancor più, e per questa ragione, l’esistenza e l’uso dei verbi.
E poi i verbi, dove Maddonni usa il titolo, incredibilmente incisivo, di fa’caccosa, e questo basta a rendere tutta la sezione impareggiabile: lavorare si traduce faticare e il lavoro è fatica, dolore, così come convincere si traduce fa’ capa’c. Magnifico quel fattariegl’, per pettegolezzo.

Ed infine i modi di dire (mod d’ di’c), forse la sezione più preziosa del lavoro (che credo, questa volta, non è stata fatica!) che indica bene la conoscenza di Maddonni della parlata di Sant’Agapito e anche la sua capacità di memorizzare il passato. Si fra i centinaia di modi di dire riportati da Maddonni, al “cazz e cucchiara” per indicare di due persone molto affiatate. Ebbene in toscano, (fiorentino/senese/Val di Chiana) di dice “culo e camicia” che comunque indica bene la simbiosi fra due persone, e le espressioni usate a Sant’Agapito e nel linguaggio toscano, così diversificate e lontane l’una dall’altra, indicano bene la diversità dello scenario storico e sociale che ne hanno fatto da supporto.
In questo scenario il vocabolario linguistico di Sant’Agapito va letto come un complesso organico di stratificazioni di linguaggi formatisi e sviluppatesi lentamente nel corso dei secoli e che possono essere così elencati:
1. una stratificazione indeuropea passata al latino con Fuori, latino Foris, nella radice DHWER/DHUR, Porta, Fuori la porta, che raddoppia il significato e il valore della prestazione data al borgo. Per quello che ha rappresentato la Porta del Palazzo a Sant’Agapito una tale connessione (fra fuori da foris e DHWER/DHUR, porta) è strabiliante; e poi c’è opera, come rappresentazione drammatica che non è tanto il plurale di opus latino, ma il sanscrito apas, e quindi GWRDUR indoeuropeo per ingordo che nel detto Ngrud e Pul’trone riporta anche l’inodeuropeo poltro che sta per letto e quindi il calco semantico macc per polenta che, unico caso per tutte le parlate del Matese e del Molise, riporta l’indoeuropeo mescula per impastato, infarinato.
2. una stratificazione italica presente, tra l’altro, nel termine piesk, da psk, roccia, e per traslato montagna (n’copp a ru pie sk, per dire sopra la montagna. Il termine è conservato peraltro nell’eponimo dell’abitato Pesche, confinante con Isernia e con gli abitati, come parte del tutto, in più punti dell’arco appenninico, Pescolanciano, Pescopennataro, Pescosolido, Pascasseroli, indicanti abitati posti a ridosso di una roccia. Tutti centri di origine osca.
3. una stratificazione greca presente, fra l’altro, nel termine us’m, dal greco attico oguós/osmos, che sta per odore, tatto, e per traslato naso (pe’us’m, vado a naso); così arca, che vale custodia, e poi dispensa, da arkeo, proteggo, da cui arcere, contenere, trattenere, quindi mina che è la cesta in legno per
alimenti, traslato dal greco mn?, risalente al semitico maneh, che sta per misura (oppure direttamente proveniente da gruppi ebraici presenti in Sant’Agapito da tempi immemorabili come attestano le stelle di David ritrovate);
4. una stratificazione latina presente abbondantemente e qui rileviamo per hiec (qui, da hic, vie’hiec = vieni qui); per mira, che sta per guardare, e suoi collegati (miria, guarda, ammira) forse per il tramite dello spagnolo; cimento – are, fare guerra, disturbare (n’cmenta, non mi disturbare, detto con dispiacere, rafforzativo di nun me da a’ prett; nun me da catoy: conciare, latino medioevale a partire dal 10°sec, per acconciare, preparare; mappa, per mappata, tovaglia; mazza, dal latino arcaico matea, bastone, banca, per tavolo (da banco, banca, dal latino passato alla parlata della penisola); iamm, per andiamo,
sbrigati, dall’esortativo eamus, passato attraverso il napoletano; massicc, da maximum, per grosso, spesso, smisurato; fatica, dal latino faticare, derivato da fatis; fiscella, dal latino fiscus, cesto, indicante i contenitori aperti ai lati a forma di imbuto portanti ricotta; persicus, per perzich, da cui pesca, pesco, il frutto proveniente dalla Persia; panarium da cui panar, per paniere, conservato nalla dizione latina piuttosto che dal francese panier, citulus, bambino che diventa citr, e poi crai (per domani caduto ormai da tempo in disuso) ps’crai da postcras, dopodomani con i derivati ps’crill e psc’crellone per “fra tre giorni”, “fra quattro giorni”; e poi sagna, per pasta fatta in casa, da lasanum, pentola, dove c’è il passaggio da contenitore a contenuto.
5. una stratificazione napoletana, anch’essa fruttuosa di una miriade di calchi semantici passati alla parlata di Sant’Agapito, dovuti non tanto e non solo alla vicinanza dalla capitale del Regno ma anche e soprattutto alla presenza del patriziato napoletano fino ai Caracciolo. Così per nuttata, notte (ma anche periodo buio nel senso morale del termine); così mariuolo, per ladro, solo per dare due fra gli innumerevoli esempi che si potrebbero fare;
6. una stratificazione gotica-germanistica, passata forse dalla lingua franca attraverso i francesismi come banno (ru bann’) per bando, dal franco ban, proclama del signore feudale, bramat, per ingordo, bramoso.
7. una stratificazione dalla lingua francese dovuta non solo alla presenza francese tra XIX e XX secolo) e prima fra XVIII e XIX secolo, (con i Francesi che impazzavano per tutto il territorio del Matese), ma anche dalla partecipazione (e dal loro ritorno) di alcuni cittadini di Sant’Agapito alla spedizione napoleonica in Russia (tanto da attribuire loro l’epiteto di mus’cuvit, “quelli di Mosca”, (quelli che sono stati a Mosca)]: a loro può attribuirsi, fra le tante, recezioni come buatt (barattolo, passato anche per il napoletano) e, esclusivo della parlata di Sant’Agapito, mauditt, per maledetto (e pronunciato così come lo troviamo scritto, senza leggere il dittongo au per o).

8. una stratificazione spagnola, come acciacco (achaque, malattia abituale, passato dall’arabo shaqa, pena).
In questo scenario di recezione linguistica, la parlata di Sant’Agapito crea un proprio vocabolario che è un unicum nella storia del linguaggio molisano e italiano: Carnal che sta per buono: accia’om, derivante dall’ecce homo evangelico, Gesù di Nazareth fustigato, sta per disgraziato, uno che non conta nulla; il cattivo è cain: dar da mangiare agli animali si dice governare le bestie (cu’uma), e c’è tutto un modo, anzi varie modalità per rappresentare il preparare la polenta: uta ru macch per cuocerla (rifacendosi al girare con il cucchiaio nel paiolo) e prepararla per mangiarla, caccià ru macch. Aver raccolto le fatiche e forse il capolavoro di questa raccolta e dobbiamo essere grati a Mario Maddonni per averlo fatto perché ha portato alla luce memorie antiche e irripetibili. Così come l’elenco delle erbe, piante delle loro parti rappresentano una proposta impareggiabile. Non esiste nella parlata di Sant’Agapito il termine gioco, giocare; il termine lo si traduce con pazziare, perché in un mondo di sudditi e sottoposti, il gioco è una pazzia, è qualcosa di estraneo alle regole diurne e solo il gioco a carte è iucuà e se ci si sofferma nell’acqua per distrarsi si dirà sciacquare ma non giocare nell’acqua. Non esiste il futuro, sottolinea Mario Maddonni, nella parlata di Sant’Agapito, perché non è possibile programmare nulla nel linguaggio della povera gente, e si usano allora circonlocuzioni: “stasera vedo, domani vado, dopodomani faccio”. E se si aggiunge la non possibilità di esprimersi con il termine “giocare” (o un suo parallelo) e la non possibilità del pensare al futuro, ci si imbatte nel gioco del gallo e del palo: il primo che Maddonni precisa consista nell’interrare un gallo fino alla testa per poi colpirlo bendati con un sol colpo, il secondo nell’essere il parallelo dell’albero della cuccagna, testimonianza di una società agricola che nella rudezza dei violenza, nel sopruso e nella sopportazione. Non è vero, allora, gesti ritrova lo sfogo e la passione della vita diurna trascorsa nella che non esiste nella parlata di Sant’Agapito il concetto di verbo. Esiste, eccome! Solo che l’esprimersi negli atti diurni si limita più ai fatti che alle parole e le parole sono essenziali e non consentono una rappresentazione completa del proprio pensiero. La parlata di Sant’Agapito è la parlata che paradossalmente parla pochissimo, perché è fatta più che di parole, di silenzi, più che di espressioni, di gesti e, a dominare, sono i fatti e gli atti, e non le parole.
Una volta chiusa la Porta del Palazzo (dentro la porta, dunque non più fuori) nelle case c’era il silenzio, intorno al fuoco che riscalda il gelo della notte che era anche, troppo spesso, il gelo dell’anima. E questo fa capire anche perché Maddonni apre (e chiude) una sezione linguistica che chiama “ru riesct”, una serie incredibile di parole e di termini che non riesce a incasellare nelle precedenti sezioni da lui individuate: sono parole che riguardano tutto il resto, il rimanente e che diventa impossibile catalogare, perché in questo caso il gesto vale più della parola.
8. Conclusione
Dire che l’opera di Mario Maddonni sia un lavoro eccezionale è dire la verità, per il rigore tecnico che questa sottende e per la forza scientifica che produce: attraverso la sua fatica (che sta per lavoro) il linguista e lo storico della lingua potrà dar vita ad un dizionario etimologico della parlata di Sant’Agapito che in questa sede abbiamo appena abbozzato. Attraverso questo dizionario etimologico si potranno classificare le consuetudini giuridiche indeuropee, italiche (osco-sannitiche), greche, latine, gotico-germaniche, napoletane, francesi, spagnole presenti nel popolo che vive in Sant’Agapito, e quindi conoscere la storia vera di Sant’Agapito: partire dalla lingua, dunque, per riandare alle istituzioni e quindi alla storia del diritto. Senza dimenticarsi dell’altro popolo di Sant’Agapito, quello dell’emigrazione. Non è un caso che questa piccola ma superba comunità abbia espresso, già prima di Maddonni, la testimonianza di ARTURO VALLETTA, Sant’Agapit Lintan’.., edito dall’Amministrazione Comunale, tutta scritta nella parlata della comunità, così come poteva ricordarla (e strascicarla, si potrebbe sottolineare, nella parlata) un bambino diventato adulto ma che con gli adulti che avevano abbandonato il luogo natio, continuava il legame spirituale con quest’ultimo che nella lingua si affievoliva però sempre più; senza dunque la forza semantica delle origini ma solo con una forte adesione alla memoria: e quindi afferente sicuramente più alla sfera del ricordo e del sentimento che a quella della documentazione storico-scientifica.

Onorato Bucci
Ordinario di Istituzioni di diritto romano
nell’Università degli Studi del Molise
Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche Sociali
e dell’Amministrazione (SGSA) dell’Università degli Studi del Molise
LXIX

Introduzione dell'Autore

P' capì - Per comprendere


M’ n’ iévv darru Paié’s a v’nt’ann, ma sò sèmp r’turna’t ògn òta ch’ sò putu’t.
Me ne andai via dal Paese a vent’anni, ma sono sempre tornato ogni volta che ho potuto.

 

Ando’ dunqu sò iu’t, m’ sò purta’t dént arru cua’p l’aria d’ ru Paiés, l’ m’ntagn, l’ ca’s, la ggènt e la parlata.
Ovunque io sia andato, ho sempre avuto nella mente l’aria del Paese, le montagne, le case, la gente ed il modo di parlare.

 

Pu’r ca i’j n’n putéva parlà la parlata mé’ja ch’ gl’ota ggènt, quand p’nza’v, p’nza’v ch’ l’ parò’l mè’j e ògn òta ch’ turna’v, m’ paréva biégl r’s’ntì e r’parlà ru dialètt.
Anche se io non potevo parlare con gli altri usando il mio dialetto, quando pensavo, pensavo con le mie parole e ogni volta che tornavo ero contento di risentire e riparlare il dialetto.

 

Quand l’ggiévv ru libb’r d’Artu’r Vallétta, ch’ m’ piacètt, ussa’t pu’r da frat’m M’chè’l, m’ m’nètt ru uli’j d’ fà nu libb’r ch’ tutt l’ parò’l vècchj e ch’ r’ mò’d d’ di’c d’ na òta.
Quando lessi il libro di Arturo Valletta, che mi piacque, spinto anche da mio fratello Michele, mi venne voglia di realizzare un libro che contenesse tutte le vecchie parole ed i modi di dire di una volta.

 

M’ sò miss a r’curdà tutt r’ fattariégl pussibb’l, tutt l’ fati’ch, tutt r’ pòsct, l’ chiacchiaria’t da uaglio’n, p’ m’ fà m’nì a mènt acchiù parò’l ch’ puté’v.
Ho cominciato a ripensare a tutti i possibili avvenimenti, i lavori, i posti, le chiacchierate da ragazzo, per cercare di ricordare quante più parole possibili.

 

N’à scta’t fac’l, ma caccòsa sò fatt e chié c’ ò p’glià apprètt e lègg chéll ch’ sò sc’critt, pò v’dé ca paricchj cò’s m’ l’ sò r’curda’t, pu’r s’ c’ manca ancòra tanta rròbba.
Non è stato facile, ma qualcosa sono riuscito a fare e chi volesse prendersi la briga di leggere ciò che ho scritto, potrebbe vedere che parecchie cose le ho ricordate, anche se manca ancora tanto.

 

Paricchj parò’l n’n c’ l’ sò méss, uo p’cchè suo’ ua’l arru talia’n, uo p’cché n’n m’ann m’nu’t a mènt: la pròss’ma òta puté’m fà mègl.
Parecchi termini non li ho messi, o perché sono simili all’italiano, o perché non li ho ricordati: la prossima volta potremo fare meglio.

 

S’ccò’m n’c’ sctà na rèula p’ sc’cri’v la parlata (ch’ da ch’ munn è munn à scta’t sèmp su’l parla’t), sò c’rca’t mò’d d’ r’purtà r’ suo’n ch’ facém quand parla’m, l’acchiù pr’c’samènt pussibb’l.
Poiché non esiste una regola per scrivere la parlata locale (che è stata solo parlata), ho cercato di riprodurre i suoni che emettiamo quando parliamo, il più fedelmente possibile.

 

Prima d’ m’ zumpà ncuogl, r’curdat’v ca la parlata nòsctra è d’ffic’l da parlà, acchiù d’ffic’l ancora da sc’cri’v e qua’sc mpussibb’l da lègg; r’curdam’c ca c’ sctann puo’ch uca’l e cà tutt l’ parò’l masch’r suo’ mozz; p’ d’cchiù, scpiss la c e la g, la c e la q, la d e la t, parlann c’ cunfund’n.
Prima di darmi addosso, ricordate che la nostr parlata è difficile da esprimere, difficilissimo da scrivere e quasi impossibile da leggere; ricordiamoci che vi sono poche vocali e tutte le parole maschili sono tronche, per di più, spesso la c e la g, la c e la q, la d e la t, parlando possono essere confuse.

 

E può c’ sctann ciért cò’s ch’ n’n c’ puonn pròpia fa capì ch’ l’ sc’cri’v: l’ mòss ch’ l’ ma’n e ch’ ru cua’p, la cant’lèna ch’ cià fatt sèmp scfott da chi’r d’ Sèrgn e cièrt parò’l, ch’ pu’r so’ sc’critt, ch’ n’n tiénn qua’sc s’gn’fca’t a lègg’l, mèntr a s’ntill di’c fann capì tutt nu munn annasc’cu’s.
E poi vi sono delle cose che non si possono rendere con la scrittura: i gesti delle mani e della testa, la cantilena che ci ha sempre provocato sfottò dagli Isernini e alcuni termini, che pure ho riportato, che non hanno quasi significato a leggerli, ma a sentirli fanno scoprire un mondo nascosto.

 

R’ngraz’j tutt chi’r ch’ tiénn la paciénzia d’ m’ lègg.
Ringrazio tutti coloro che avranno la pazienza di leggermi.

 

Premessa

Premessa

Per facilitare la ricerca, i termini sono stati divisi per “famiglie”.
Similmente ad ogni “dizionario”, la prima parte riporta la traduzione dialetto verso italiano, mentre la seconda parte è inversa, con eccezione dell’Appendice (Mod’d’ di’c) che è unica.
Sono stati riportati i termini di uso comune più diffusi.
I termini sono stati scritti tenendo conto il più possibile dell’assonanza fonetica, ricordando che non esiste un dialetto scritto cui far riferimento.
Quando ritenuto utile sono stati messi gli accenti per individuare la corretta pronuncia ed è stato riportato il plurale quando la relativa voce è sensibilmente diversa dal singolare.
Per ogni termine elencato viene indicata la traduzione in italiano e, se ritenuto utile, una piccola frase chiarificatrice al cui interno trova giusta collocazione.

Le “famiglie” individuate sono le seguenti:

 

1. – P’rzu’n e Parr’ntè’r (Persone e Parentele)
2. – Ian’ma’l (Animali)
3. – Pòst e Tiémp (Località e Tempi)
4. – Fati’ch e str’miént (Lavori e relativi attrezzi – soprattutto agricoli)
5. – Chiant e Iérv (Piante ed erbe)
6. – Fà caccòsa (Verbi – è possibile qualche ripetizione in capitoli omogenei)
7.Tutt ru riésct (Termini sparsi, non raggruppabili in gruppi omogenei)
8.Appendice
Mo’d d’ di’c (Frasi particolari e modi di dire)

Suggerimenti per la lettura e per la pronuncia

La “ò” accentata è aperta come quella di “osso
La “o” atona è chiusa come quella di “dolce
La “c” finale è sempre dolce come quella di “céra
La “ch” seguita da “j” si legge come in “chiésa
La “g” finale è sempre dolce come quella di “gèlo
La “è” con l’accento grave (verso sinistra) si legge come in “Dècimo
La “é” con l’accento acuto (verso destra) si legge come in “Svéglio
La “gl“, anche se alla fine di una parola tronca è sempre dolce come in “gli
La “sc” e la “ssc“si leggono sempre come in “sci“, anche se alla fine di una parola o prima di una consonante (“ssc” è marcata)
La “z” all’inizio di una parola è normalmente dolce (quando è dura, è raddoppiata)
L’apostrofo “” indica un indugio nella lettura sulla lettera alla sua sinistra, anche se si tratta di consonante.

Curiosità

Nella Parlata vi sono alcune regole fondamentali e molte eccezioni curiose.

 

Tutti i nomi maschili al singolare sono tronchi e hanno normalmente l’articolo “ru” (il).

 

Al plurale gli stesi diventano femminili, acquisiscono la “a” finale e hanno l’articolo “l” (le).
Ad es.: ru di’t (il dito)/l’dét’ra (le dita); ru titt’r (il tetto)/l tétt’ra (i tetti).

 

Alcuni nomi, senza una regola apparente, restano inalterati al plurale, cambiando solo l’articolo (ru sciu’m –il fiume/r’ sciu’m –i fiumi; ru libb’r –il libro/r’ libb’r –i libri).

 

Altre volte, restano tronchi e nel plurale aggiungono o cambiano una vocale intermedia (ru ò’v (il bue)/r’ uo’v (i buoi); ru sorg (il topo)/ r’ surg (i topi).

 

Infine, in alcuni casi, cambiano notevolmente, pur restando tronchi: ru cua’n (il cane)/ r’ chia’n (i cani); gl’ò’m (luomo)/ gl’uom’n (gli uomini).

 

Tutti i nomi femminili al singolare finiscono in “a” e hanno l’articolo “la”, mentre al plurale perdono la desinenza, mantenendo l’articolo femminile plurale “l’” (la casa –la casa/l’ ca’s –le case; la pècura -la pecora/l’ pecu’r –le pecore; la chianta –la pianta/l’ chiant –le piante).

 

In alcuni casi si inserisce una vocale (la tèrra –la terra/l’ tiérr (le terre; la cèsa –terreno scosceso/l’ cié’s …).

 

La parole femminili che al singolare finiscono con un dittongo (la vècchiala materia), al plurale cambiano il dittongo con “j” (l’ vècchj, l’ matèr’j).

 

Le parole femmininili che finiscono in “ca” e “ga”, al plurale acquisiscono l’”h” finale (la furmica –la formica/l’ furmi’ch; la cot’ca –la cotica/ l’ cut’ch –le cotiche).

 

L’articolo “l”può essere maschile singolare (l’ pa’n –il pane) o femminile plurale (l’ ca’s –le case) a seconda del sostantivo che accompagna.

 

L’articolo “gl” è usato davanti a sostantivi maschili singolari che iniziano con una vocale e spesso non cambia al plurale (gl’o’m –l’uomo/gl’uom’n –gli uomini; gl’uocchj –l’occhio/gli occhi).

 

 

Per finire, alcune stranezze (magari ne esistono tante altre ma non le ho rilevate):


I verbi non hanno un tempo futuro, ma solo presente e passato: domani andrò diventa add,ma’n vagl (domani vado);


Non esiste un termine per definire la pioggia: c’è il verbo (chiò’v/piove, ha chiuov’t/ ha piovuto, scta chiuènn/sta piovendo), ma non il sostantivo, benché esistano tutte le varianti (vavari’j/pioviggine, chiu’uari’j/pioggerella, ran’ra/grandine, né’v/neve, sccruossc/scroscio, scpénta(sccrusscio’n)/acquazzone;
Allo stesso modo, non esisteva un termine per indicare il temporale.